Il digitale che ucciderà il pro e la pellicola che salverà l'arte

Il digitale che ucciderà il pro e la pellicola che salverà l’arte

Skyline

Lo scorso maggio, quando Flickr ha lanciato una nuova versione del sito, che non prevede più l’opzione “Pro”, Marissa Mayer ha affermato che il professionismo in fotografia non esiste più grazie all’avvento del digitale. L’affermazione è meno sorprendente e provocatoria di quanto non possa sembrare a prima vista.
A grandi linee, possiamo oggi individuare tre ambiti nella fotografia:

  • Fotografia come mezzo artistico;
  • Fotografia come mezzo sociale;
  • Fotografia come mezzo tecnico-commerciale.

Questi tre ambiti non sono rigidamente separati e hanno zone di interconnessione, ma le tratterò distintamente per comodità espositiva.
La fotografia come mezzo tecnico-commerciale è sotto i nostri occhi ovunque: manifesti pubblicitari, cataloghi, volantini, depliant, riviste sono impensabili senza l’accompagnamento di un’immagine, tanto che il filosofo Flusser ebbe a scrivere intelligentemente che questo tipo di fotografia così pervasiva ha non solo, o non tanto, la funzione di descrivere e spiegare un prodotto o un avvenimento, ma anche e soprattutto quella di creare modelli cognitivi, schemi di interpretazione e di produzione del reale (funzionali al biopotere, verrebbe da dire). Così, si è belle se si è come le modelle della tal foto in pubblicità; si è in vacanza nel posto “giusto” se il panorama che vediamo corrisponde alla foto-cartolina del catalogo turistico.

Se è vero che tutta la fotografia è finta in quanto interpreta -e non riproduce- la realtà, questo tipo di fotografia è più subdolo e insidioso perché crea una realtà fittizia senza renderlo palese e anzi la presenta come vera a chi ne usufruisce. Questo è senz’altro l’ambito professionale della fotografia: esso è strettamente legato al mercato e alle sue logiche e ha, tra l’altro, tutto l’interesse a fare in modo che il digitale prenda ogni sopravvento rispetto a tecniche più tradizionali come la pellicola, a torto presentate come inutili e sorpassate. Basti pensare alla corsa verso la risoluzione sempre maggiore dei sensori: i produttori spingono verso l’ultimo modello con la risoluzione sempre più ampia (8, poi 10, poi 12, poi 16 Megapixel…) quando in realtà questo non è il solo fattore di qualità fotografica e quando in realtà si possono ottenere stampe di ottima qualità in formato 30×40 già utilizzando una macchina da “soli” 6 Megapixel. È un po’ come cercare di convincere tutti che hanno bisogno della Ferrari quando possono tranquillamente impiegare una bici, senza contare che una foto su pellicola in medio formato 6×6 e scansionata a 2400dpi arriva fino a 50Mb di risoluzione, ovvero a una definizione al momento ancora inaccessibile dalla maggior parte del mondo digitale.

Il totem digitale però si è in parte rivoltato contro se stesso: dal momento che fotocamere sempre più potenti e facili da usare sono disponibili a prezzi accessibili ai più, l’alta qualità meramente tecnica della foto è diventata appannaggio non esclusivo dei professionisti. Se è vero che molti professionisti obietterebbero a ragione che una foto professionale tiene anche in debito conto l’illuminazione, la composizione e altri fattori tecnici, è comunque vero che molte più persone rispetto a un tempo sono in grado di realizzare scatti semiprofessionali con una facilità prima impossibile e possono poi utilizzare programmi di fotoritocco per migliorare il risultato finale; il divario tra una foto “pro” e una “non-pro” sta diminuendo. Se ne accorgono, per esempio, i fotografi di matrimoni che sempre più spesso patiscono la concorrenza di amatori evoluti dotati di un’attrezzatura adeguata; e va detto che spesso la differenza si percepisce a stento. Schematizzando grossolanamente per concludere, il fotografo “tecno-maniaco” segue il mercato ed è alla ricerca costante del sensore più potente, dell’obiettivo più costoso, delle funzioni aggiuntive incorporate. Vuole immagini perfette, mai sporche, sempre più nitide: del resto, il mercato questo gli chiede. Non è interessato alla fotografia come espressione artistica perché essa è poco spendibile sul mercato. E anche perché il mercato gli ha fatto intendere che in fondo l’arte è questa.

Alla fotografia tecnico-commerciale (e digitale) è strettamente collegato l’ambito sociale della fotografia, il quale esisteva ovviamente anche prima, ma che col digitale è letteralmente esploso. Oggi si scatta pure con il tablet e con lo smartphone (talora, va ammesso, con risultati degni di nota) e si condivide all’istante sui social network. Non sei stato in un posto se non lo hai fotografato e condiviso. Si assiste a una produzione smisurata e senza precedenti di immagini e a una loro replica e condivisione; questo fenomeno interessa tutto sommato poco o nulla l’ambito artistico della fotografia ma è strettamente interdipendente da quello tecnico-commerciale. Sono in vendita, non a caso, modelli di fotocamera digitale con funzioni incorporate di social networking. Anzi, è precisamente in questo ambito che si realizza appieno lo scopo di produrre, attraverso l’immagine, modelli di comportamento e di interpretazione del reale. Il fatto che ciò non sia più prerogativa esclusiva di professionisti che il mercato incarica di fare questo, ma sia diventato in qualche misura oggetto di produzione collettiva, rientra semplicemente nella direzione di sviluppo del capitalismo contemporaneo, che si contraddistingue proprio per la messa a produzione e a valorizzazione della vita stessa in quanto tale. Non riguarda solamente la fotografia, ma i fotografi che sono ancora interessati all’ambito artistico devono esserne consapevoli. Del tutto consapevolmente quindi l’ad di Flickr ha affermato questa verità: si assisterà verosimilmente a una “proletarizzazione” e banalizzazione del fotoprofessionista, semplicemente perché nel medio o lungo termine non ce ne sarà più bisogno. Oggi realizzare belle foto è fin troppo facile e alla portata di tutti.

In questo scenario, qual è lo stato della fotografia intesa come mezzo artistico? Essa è tanto possibile quanto più si svincola dallo strapotere del digitale e dall’idea dell’immagine come funzione della condivisione sociale e della produzione fenomenica. Il digitale finirà forse per uccidere il professionismo ma non la ricerca artistica, che sopravvive anche e soprattutto al di fuori di esso. Non voglio affermare che ogni ricerca artistica sia preclusa all’impiego del digitale, ma in questo campo si assiste a un recupero della fotografia analogica tradizionale che dà vita a fenomeni interessanti. Una cosiddetta “lomografia” esprime solo se stessa, non vuole servire alcunché, non ha e non produce senso, intende essere semplicemente guardata ed è in questo che si recupera una dimensione autenticamente artistica della fotografia, forse l’unica possibile oggi. Principalmente anche se non esclusivamente per merito della Società Lomografica Internazionale, fondata a Vienna una ventina di anni fa, si assiste al recupero di vecchie macchine fotografiche apparentemente “povere” per portare avanti, attraverso l’uso della pellicola, una ricerca artistica difficilmente praticabile altrimenti. Alcuni effetti che con il digitale sono realizzabili -e non sempre- attraverso la postproduzione sono possibili in modo nativo impiegando la pellicola: doppie esposizioni, vignettature, effetti di sfocatura artistica, immagini sdoppiate utilizzando dispositivi come uno splitzer, oppure foto scattate con una macchina panoramica analogica come la Belair X 6-12 munita di dorso 35mm: sono negativi delle dimensioni di 24×99 mm che restituiscono immagini difficilmente ottenibili con una macchina digitale, nonché di risoluzione ben maggiore. Non è quindi nemmeno automatico -come pensa la mentalità corrente- che questo recupero della pellicola produca uno scadimento della qualità: è molto interessante e regala immagini di impatto notevole, per esempio, tutto un filone che impiega fotocamere a foro stenopeico, in alcuni casi anche autocostruite con mezzi di recupero come legno e cartone.

Si potrebbe affermare che la cosiddetta “lomografia” riassume alcuni aspetti rilevanti:

  • ribadisce che ciò che conta in fotografia non è tanto il macchinario tecnologicamente avanzato, ma la mente del fotografo. La vera macchina fotografica è lui. Puoi realizzare splendide foto con una fotocamera stenopeica di legno ed essere incapace di guardare il mondo con la tua reflex digitale da 24 Megapixel;
  • ribadisce che l’atto fotografico va in qualche modo “meditato”. Chi impiega il digitale ormai inizia a pensare che basti scattare a raffica perché tanto tra 200 foto qualche cosa di decente ci sarà pure. Poi ci pensa Photoshop. La pellicola chiede lentezza, implica un’accurata gestione dei tentativi, è tutt’altro che più semplice del digitale perché vuole un’idea alle sue spalle e la capacità di fermarsi per osservare in profondità;
  • ribadisce che l’espressione artistica in fotografia non può essere legata a logiche commerciali o di mercato ma è soprattutto figlia della sperimentazione, della ricerca stilistica personale, del divertimento, finanche dell’inutilità dello scatto realizzato. Nulla è più triste di un fotografo che parte con studi artistici, con formazione specifica e finisce col realizzare reportage di matrimonio per vivere.