Kusen immaginari / 03

Kusen immaginari / 03

Durante zazen ci concentriamo fin dal primo istante sul respiro e sulla postura: le ginocchia sono ben puntate verso il terreno, la schiena è diritta, ciò che poggia sul cuscino non sono i glutei bensì il perineo, il bacino è leggermente inclinato in avanti. Questo consente di stabilizzare la postura grazie a un triangolo ideale ginocchia-colonna-perineo.

Le falangi della mano sinistra sono appoggiate su quelle della mano destra, i pollici sono sollevati a formare un’ellisse e le loro punte si sfiorano leggermente. La nuca è leggermente inclinata in modo che lo sguardo possa naturalmente posarsi al suolo, a circa 45 gradi di fronte a noi. La lingua batte sul palato in prossimità dei denti. Nel dojo sediamo di fronte al muro e non chiudiamo gli occhi; non ce n’è bisogno intanto per evitare la sonnolenza e poi perché -simbolicamente- non c’è nulla di fronte a cui chiudere gli occhi. È in questo momento che iniziamo a vedere la nuda realtà come essa si presenta.

In zazen non ci sono problemi da risolvere né soluzioni da trovare. Abbandoniamo le valutazioni della mente ordinaria che molto spesso creano soltanto separazione tra noi e gli altri: questo mi piace, quello è antipatico, questo è un bene, quello è un male. Non ci sono preferenze o volizioni o giudizi: si tratta veramente e solamente di concentrarsi sul respiro e sulla postura. Non c’è molto altro da fare, basta semplicemente questo -ed è già il risveglio. Allora anche tutti i libri che possiamo aver letto sull’argomento e tutte le nozioni come nirvana o samsara si rivelano superate, si svuotano di senso, perché il risveglio non è gran che di straordinario, è semplicemente il restare presenti nel qui-e-ora grazie al respiro e all’attenzione portata sul corpo-mente. Se lo comprendo solo intellettualmente, ma non lo vivo concretamente nella pratica, allora è tempo buttato via. Se non realizzo che il dojo me lo porto sempre dietro ed è il mio corpo-mente, inutile leggersi i manuali. Tanto vale andare al cinema o allo stadio.

Quando diamo costantemente corda al pensiero ordinario che discrimina e categorizza o appiccica etichette a questo e a quello, diventiamo alla fine un po’ come quel giocatore d’azzardo che riprova la giocata subito dopo averne persa un’altra. Si insegue costantemente una speranza o un’aspettativa di un vantaggio o di un qualche risultato quando sarebbe bene realizzare che in questo caso la vittoria sta nel non giocare. Come è scritto anche nel Tao Te Ching:

L’uomo comune è così brillante

solo io sono tutto ottenebrato,

l’uomo comune in tutto s’intromette,

solo io di tutto mi disinteresso.

Il punto non è però essere nichilisti, apatici, evitare il pensiero, uccidere le idee o affogare le emozioni: nella pratica si impara con il tempo e con la pazienza a considerare le costruzioni mentali per quel che sono, come degli “utili mezzi” che posso controllare se le illumino grazie al faro di zazen. Se in zazen ho acquisito la consapevolezza che ogni mia costruzione mentale va e viene, sorge e muore spontaneamente se io mi limito ad osservarla senza darle forza col respingerla oppure coll’attaccarmici, allora posso trasportare questa consapevolezza in ogni aspetto della mia vita quotidiana: lavoro, famiglia, eccetera. Così, quando mangio sto semplicemente e unicamente mangiando, quando cammino sto semplicemente e unicamente camminando, quando mi lavo i denti sto semplicemente e unicamente lavandomi i denti; se un pensiero non utile si infila dentro, grazie a zazen ritorno al respiro e alla consapevolezza del mio corpo-mente. Lo zen è tutto qui: non c’è bisogno di chissà che cosa, se non di una pratica costante di zazen. Tutto è meditazione a un certo punto.

Può sembrare banale, ma è una rivoluzione non da poco invece, che riesce lentamente a modificare il nostro modo di vedere le cose e di rapportarci con gli altri.