Kusen immaginari / 04

Kusen immaginari / 04

Una delle domande più frequenti che ci si sente rivolgere riguarda l’utilità di zazen e come esso sì trasporti nella vita quotidiana. Spesso si sente dire che zazen è senza scopo, che non risolve alcunché. Anche se in effetti è vero che si pratica la meditazione per la pratica in quanto tale, senza scopo né intenzione, spesso le persone praticano per un po’ zazen e poi si stufano, non vedono i risultati che magari si attendevano in base a loro aspettative. In realtà il Buddha si è seduto e anche altri dopo di lui, così come facciamo ancora noi oggi, per risolvere con fermezza una questione: la più importante. Tale questione è quella della sofferenza, nostra e altrui.

Quando il Buddha ha iniziato la meditazione era un principe, era ricco, non gli mancava nulla in apparenza; eppure anche lui non riusciva a risolvere alcune sofferenze: la sofferenza di invecchiare, la sofferenza di ammalarsi, la sofferenza di morire o quella di perdere persone care. Ai nostri tempi la vita fornisce persino ulteriori motivi di sofferenza rispetto a quelli del Buddha. Magari si pratica zazen e durante la meditazione i pensieri e i problemi della vita quotidiana disturbano, oppure sI fa zazen anche tranquillamente, ma poi la vita riprende il sopravvento con tutte le sue fonti di sofferenza: la sofferenza di non avere il lavoro, la sofferenza di lavorare troppo, la sofferenza di non essere con chi amiamo, la sofferenza di stare con chi non amiamo, la sofferenza che ci procura la paura di perdere il lavoro o chi amiamo, la sofferenza di essere emarginati dal contesto sociale o quella di non possedere tutti gli oggetti di cui vediamo la pubblicità.

Sembra davvero un tunnel senza uscita, a meno che non facciamo tesoro dell’insegnamento di zazen dove, concentrati sul respiro e sulla postura, ci rendiamo conto con il nostro corpo dell’impermanenza di ogni nostra costruzione mentale, del fatto che ogni cosa è effimera e passeggera. Il dato fondamentale è che tutto è insegnamento, nulla è inutile, ogni cosa è sacra, persino quando ci laviamo i denti. Esattamente come i primi tempi in cui si pratica la meditazione e magari proviamo dolore alle ginocchia, ma poi con il tempo e con l’esercizio il dolore cessa: eppure quel dolore è stato utile. Esattamente come dopo molti zazen in cui siamo stati agitati riusciamo finalmente a trovare la pace: eppure quella agitazione è stata utile. Esattamente come prima di camminare inciampiamo e ci facciamo anche male: eppure quell’incidente è stato utile.

Lo stesso spirito, con fiducia, deve essere trasportato nella vita quotidiana: a noi sfuggono molte tessere di un mosaico che non riusciamo a vedere interamente; ogni esperienza, anche quella che in apparenza è più negativa, può risultare un’opportunità di illuminazione, di esempio, di cambiamento: per noi stessi in questa vita o anche in un’altra esistenza, oppure può risultare di insegnamento ad altri in questa esistenza o in altre. Però bisogna perseverare nella pratica di zazen e renderla costante, perché essa è il faro che illumina i nodi della sofferenza. Viceversa, siamo come qualcuno che mentre la sua casa brucia, invece di spegnere l’incendio si domandi con quale sostanza sia stato appiccato l’incendio o da chi. Intanto la casa brucia e viene distrutta.

Con questo ritorniamo a un altro concetto chiave: ogni cosa è interdipendente, nessuno è un’isola. Stamattina presto, per esempio, prima di andare al dojo ho sbagliato per tre volte a digitare il pin del mio cellulare e ovviamente il puk era a casa in un cassetto: siccome dopo zazen in genere il giovedi devo subito precipitarmi a casa, questo intoppo mi ha costretto ad uscire prima dal dojo, facendo solo il primo zazen ed evitando il secondo. Questa mia piccola e in apparenza innocua dimenticanza ha avuto conseguenze: il compagno che viene a praticare con me e che io accompagno e riporto a casa ha dovuto rinunciare anche lui al secondo zazen; io e lui abbiamo perso l’insegnamento del maestro e il maestro l’opportunità di impartircelo. Invece di lamentarmi o di reagire, ho tratto pazientemente la lezione arrivatami da questo leggero inconveniente. Un mio sbaglio ha avuto conseguenze sulla vita di almeno altre tre persone, oltre me: la prossima volta sarà bene che io non sbagli e resti fino all’ora solita in zazen. Si tratta di un grande insegnamento.

Ecco, se riusciamo veramente a non scartare alcuna esperienza e -nel profondo- ad accettare la possibilità che ciò che ci accade prima o poi tornerà utile (a noi o ad altri) e sospendiamo il giudizio immediato di una mente che vuole categorizzare tutto in “bello” e “brutto”, allora la vita non è più complicata. Possiamo trovare una vera pace, il che non vuol dire essere rassegnati o passivi di fronte agli eventi, ma significa non essere prigionieri di essi e non soccombere, ma ricercarne le cause per vedere se è possibile porvi rimedio oppure se l’unica cosa che si può fare è accettare che non si possa fare nulla.