Gli animali pazienti (lo zen e il vegetarianesimo)

Gli animali pazienti (lo zen e il vegetarianesimo)

Sono diventato vegetariano -e lo sono stato per parecchi anni- quasi in contemporanea con l’inizio della pratica dello zen: mi sembrava la conseguenza naturale del primo dei cinque precetti buddhisti: astenersi dall’uccidere o dal nuocere agli esseri viventi. Più avanti ho scoperto che le cose erano meno scontate. In realtà il Buddha, per iniziare, non era vegetariano e ha chiarito la posizione al riguardo nel 55° discorso o Discorso di Jīvaka. Un detrattore lo accusa di mangiare carne senza scrupolo e il Buddha ribatte:

Vi sono tre casi in cui io dico di non mangiare carne: vista, sentita e sospettata. E vi sono tre casi in cui io dico di mangiare carne: non vista, non sentita, non sospettata.

La questione qui, allora, non è tanto il mangiare o il non mangiare carne. Ciò che conta è lo spirito con cui si affronta questo cibo. Il Buddha mangia la carne, se riceve la carne di un animale che lui non sa né sospetta che sia stato ucciso appositamente per lui, o non ha visto né sentito che fosse ucciso apposta per lui, per il suo nutrimento. Gli interessa non essere la diretta causa della morte dell’animale. Detto altrimenti, la macellazione buddhisticamente parlando incide sul karma del macellaio in primis e poi su chi deliberatamente fa uccidere un animale per lui.

Tendenzialmente l’alimentazione nei dojo e nei templi è vegetariana, ma ci possono essere eccezioni: per esempio il famoso tempio giapponese Antaiji raccomanda quanto segue a eventuali visitatori:

The hunters in the village close to Antaiji donate wild boar and deer to the monastery. Therefore not all meals are vegetarian. You will be expected to eat everything in your bowls, regardless of whether or not you like the food (even fish or meat products).

Cioè (traduzione mia):

I cacciatori nel villaggio vicino ad Antaiji donano cinghiali e cervi al monastero. Pertanto non tutti i pasti sono vegetariani. Ci si aspetta che tu mangi qualunque cosa nella tua ciotola, non ha importanza se gradisci o meno il cibo (anche pesce o carne).

Ecco, lo spirito zen autentico è più vicino a questo avviso: dichiararsi fermamente vegetariani è una trappola dell’ego, è l’ennesima etichetta dell’io-sono-qualcosa e voi-siete-altro. Io sono vegetariano, quindi sono nel giusto, voi siete carnivori, quindi siete nell’errore. Non v’è nulla di più lontano dall’insegnamento del Buddha, che è il consiglio -sempre- di un giusto mezzo, di una giusta equidistanza tra posizioni estreme. Anche nello zen è meglio evitare di “essere qualcosa”, piuttosto si dovrebbe essere “tendenzialmente qualcosa”, “quasi qualcosa”.  Nel momento in cui sei qualcosa, ti rinchiudi di nuovo nella prigione dell’ego che discrimina tra bene e male.

Posso citare episodi -per me illuminanti- di come non ci sia assolutismo al riguardo, nello zen: in una sesshin, durante un mondō, un praticante chiede al maestro come ci si debba comportare riguardo al consumo di carne e la risposta è: “Bisogna essere quasi vegetariani”. Una monaca mi racconta che lei e suo marito erano stati invitati a cena da un loro amico, molto malato, il quale ignorava che loro fossero vegetariani. Arrivati a cena, si scopre che tutto è a base di carne. Cosa si fa? Per non umiliare l’amico morente si mangia ogni cosa come se nulla fosse: l’amico muore dopo una settimana, aver accettato quel cibo è stato in realtà un gesto di compassione.

Altro episodio: cena al dojo e viene servito un piatto di agnolotti. Dopo un silenzioso imbarazzo dei commensali, il maestro dice: “Dovete superare i vostri attaccamenti e vivere le contraddizioni”. Insomma: si mangia quello che c’è, ovvero affronto il mondo come è veramente, non come io vorrei che fosse in base a una mia presunzione di correttezza. L’insegnamento comincia già nella tua ciotola.

Qualche mese fa -complice anche alcune complicazioni di salute- ho pertanto ripreso a mangiare carne. Solitamente, quando lo comunico, la prima reazione in taluni è di sorpresa allarmata e proprio tale reazione mi conferma invece la saggezza della scelta. Questo gesto in realtà è stato un altro piccolo passo verso il mio Risveglio. Essere vegetariani non è una religione, non dovrebbe esserlo; lo zen del resto non è una pratica dogmatica, ma è una pratica che evidenzia come qualunque cosa -anche quella apparentemente più nobile- possa diventare fonte di attaccamento spirituale e quindi di sofferenza nostra o altrui: una sorta di gara a chi è moralmente più elevato. Del resto, assisto molto spesso a discussioni sui social che mi confermano il fanatismo di alcuni vegani/vegetariani: agli occhi di costoro sembra che il mondo sia diviso in buoni e cattivi, in criminali e salvatori e Giuseppe Cruciani ne ha fatto anche un libro: I fasciovegani, pubblicato dalla casa editrice la Nave di Teseo.

Ciò che conta è quindi lo spirito con cui affronto il problema: se sono lucido, devo ammettere a me stesso che la questione fondamentale è la venuta al mondo. Una volta nato, sono inserito in un circolo di sofferenza e non posso (mio malgrado) evitarlo: se faccio un viaggio in autostrada uccido degli insetti che si schiacciano sul parabrezza; se bevo dell’acqua uccido dei micro-organismi. Non uccidere, per la vita, è impossibile; ciò che è possibile fare è evitare il male commesso intenzionalmente. Vi suona strano? Si vede che sono solo un quasi-buddhista.

Ho digiunato, ho meditato, ho rinunciato, ho fatto voti per questo e per quello. Le ho fatte, tutte queste cose. Perché ho avuto un milione di anni a disposizione. E alla fine, mi sono ritrovato dov’ero -al punto di partenza.

Krishnamurti (1895-1986)