Cosa possono insegnare il sistema scolastico tedesco e inglese a quello italiano

Cosa possono insegnare il sistema scolastico tedesco e inglese a quello italiano

Il sistema scolastico tedesco è organizzato su base federale: ogni Land definisce i percorsi in autonomia, ma si possono tuttavia delineare delle linee comuni. La scuola primaria inizia a 6 anni e prevede un percorso iniziale di quattro anni; terminato questo ciclo, gli alunni frequentano (dai 10 ai 12 anni) un biennio orientativo volto a individuarne le inclinazioni e le attitudini. Non esiste una scuola media unica, come in Italia: sulla base delle capacità, dei risultati raggiunti e del grado di autonomia dimostrato, gli insegnanti della primaria indirizzano già gli studenti verso percorsi differenziati:

-Hauptschule, per coloro che sono meno portati allo studio teorico, al termine del quale in genere si accede a un percorso professionale accompagnato da tirocini;
-Realschule, per gli studenti di livello intermedio, grosso modo corrispondente a un percorso tecnico-professionale;
-Gymnasium, percorso preparatorio all’Università, al termine del quale si consegue un diploma che ne costituisce il presupposto di accesso.

In alcuni Land esiste nondimeno una sorta di “scuola media unificata” (Gesamtschule) al posto della Hauptschule e Realschule. Questi percorsi durano in genere fino ai 15 anni: dopo si accede a percorsi secondari di secondo grado -di durata breve ossia due o tre anni- come per esempio un Gymnasium di secondo livello oppure diversi tipi di scuole professionali.

In Germania inoltre esistono scuole speciali per quegli studenti che in Italia rientrano nell’alveo della disabilità o dei cosiddetti Bisogni Educativi Speciali; in tali istituti i docenti sono specificatamente formati per insegnare a questo tipo di utenza e in generale il numero di alunni per classe è ridotto; ciò nonostante, alcuni alunni con difficoltà di apprendimento frequentano delle Hauptschule o delle Gesamtschule.

Riassumendo si può dire che il sistema scolastico in Germania è caratterizzato da una canalizzazione precoce degli studenti, dall’assenza di un percorso secondario di I grado unificato e dalla presenza di scuole dedicate ad alunni con bisogni educativi speciali. In Italia il modello è esattamente l’opposto: qualche anno fa Paola Mastrocola, nel suo Togliamo il disturbo, aveva proposto -inascoltata- di inserire nel nostro ordinamento un sistema di canalizzazione precoce basandosi sull’argomentazione condivisibile che già verso i 10/11 anni si capisce se l’alunno sia portato o meno per lo studio teorico. Eppure molti concordano sul fatto che in Italia la scuola secondaria di I grado sia l’anello debole del sistema, il punto dove molti alunni si “perdono”. Il fatto è che nella scuola media unificata italiana, al di là di ogni discorso teorico sulla personalizzazione e sull’individualizzazione (peraltro spesso poco realizzabili praticamente, data la scarsità di risorse) si continua a insegnare come se tutti dovessero andare al Liceo classico per tradurre dal greco e dal latino. Alcuni alunni vengono fermati un anno, a volte anche due, salvo poi inserirli in costosi progetti come il piemontese LAPIS per far loro recuperare un anno attraverso percorsi professionalizzanti. Se ci fosse meno ipocrisia si potrebbe salvare molta dell’autostima e del tempo di vita di tali studenti indirizzandoli da subito, come in Germania, in una “scuola media professionalizzante”: questa è la lezione che il sistema italiano dovrebbe trarre da quello tedesco e da altri molto simili come quello austriaco o olandese. Sono convinto che anche l’eccellenza degli studenti destinati a percorsi liceali ne trarrebbe giovamento.

Il sistema inglese, da parte sua, è sempre stato caratterizzato da una decisa autonomia tanto è vero che nel 1988 si è sentita la necessità di predisporre un curricolo nazionale per la scuola dell’obbligo, che però viene ampiamente integrato da materie che ogni scuola propone ai propri studenti; invece gli ultimi due anni di scuola post-obbligo sono contraddistinti da una totale autonomia curricolare. Non esistono, cioè, materie obbligatorie a questo livello e ciascuno studente definisce il proprio piano di studi sulla base del percorso universitario o professionale con cui intende proseguire. Didatticamente parlando anche i docenti sono liberissimi di adottare le metodologie ritenute più idonee; per la costituzione dei gruppi classe vige la pratica del setting: gli alunni vengono divisi in gruppi di livello secondo la loro preparazione. Uno studente per esempio può trovarsi al primo livello per la lettura e all’ultimo per la matematica. Ciò spiega perché nelle scuole inglesi in pratica quasi non esista la bocciatura, che va comunque concordata con i genitori: un alunno con difficoltà in una certa area disciplinare, piuttosto che essere fermato, di fatto ripeterà più volte lo stesso modulo didattico adeguato al suo livello. Forniamo un esempio per fare comprendere meglio come questo modello potrebbe essere realizzato in Italia, tra l’altro in modo legittimo applicando l’art. 4, c. 2 del DPR 275/99 (Regolamento dell’autonomia scolastica). Nella scuola secondaria di I grado, invece della tradizionale scansione rigida in discipline, si potrebbe dividere il curricolo in “aree di competenza” a micro-moduli. Per italiano, ad esempio: Ortografia I, Ortografia II, Sintassi della frase semplice I, Sintassi della frase semplice II, Elementi di storia letteraria italiana I, Elementi di storia letteraria italiana II eccetera. L’alunno che mostrerà enormi limiti ortografici ripeterà per tre volte nel suo ciclo di studi Ortografia I cercando di acquisire dei livelli minimi accettabili, invece che perdere un anno con ripercussioni sulla sua autostima e sul clima generale della classe nella quale il ripetente andrà a finire. In breve, un curricolo organizzato per setting consente di limitare le ripetenze e di recuperare con maggiore efficienza le lacune.

Ci sono altri aspetti positivi del sistema inglese, strettamente correlati al suo elevato livello di autonomia. A grande libertà deve corrispondere grande responsabilità verso i risultati del servizio, anche per assicurare correttamente la libertà di scelta delle famiglie: l’INVALSI inglese, denominato OFSTED, verifica tramite prove standardizzate il grado di apprendimento raggiunto in inglese, matematica e scienze. A differenza di quanto avviene in Italia, nel Regno Unito i dati delle rilevazioni nazionali sono completamente pubblici, anzi viene proprio stilata una classifica di merito degli istituti scolastici, legata anche ai rispettivi tassi di finanziamento pubblico che le scuole riceveranno. Quando una scuola viene valutata in modo insufficiente dall’OFSTED, essa è invitata a seguire un piano di miglioramento per superare le criticità rilevate. Se l’inefficienza persiste, la scuola può anche essere chiusa e ciò comporta il licenziamento del personale: sia i docenti sia i dirigenti, infatti, nel Regno Unito vengono direttamente assunti dagli organi di governo della scuola.

In Italia la cultura della valutazione purtroppo incontra ancora molta resistenza, come se il mestiere di insegnante non dovesse rendere conto dei propri risultati -ciò che invece pare ormai acclarato per un avvocato, per un chirurgo, per un docente universitario- anche alla luce di una certa nostalgia, nemmeno tanto velata, per la scuola pre-autonomia e di impostazione gentiliana, ormai non adeguata al contesto sociale in cui siamo immersi. Occorre infine ricordare che dall’autonomia delle scuole italiane l’art. 15 del già citato DPR 275/99 esclude espressamente l’assunzione degli insegnanti, prassi consolidata nel sistema anglosassone. La legge 107/2015 ha cercato meritoriamente, tramite la cosiddetta “chiamata diretta”, di inserire nel nostro sistema un primo, seppur parziale, tentativo di autonomia di scelta da parte delle scuole dei docenti più adeguati al proprio progetto formativo. Sappiamo come è finita: i docenti italiani nella loro maggior parte in rivolta; il precedente governo che al riguardo balbetta, anziché procedere con fermezza; l’attuale esecutivo che fa dietro-front, di fatto ristabilendo il criterio della graduatoria anziché quello della valorizzazione professionale. Anche in questo caso, ci si domanda se l’autonomia scolastica italiana non sia “figlia di un dio minore”: mentre per altre amministrazioni pubbliche appare del tutto fuori discussione che il reclutamento del personale sia interno (pensiamo alle aziende sanitarie oppure alle Università o alle Camere di Commercio), solo nella scuola si registra una tenace resistenza e la persistenza di modelli centralistici che purtroppo i legislatori e i sindacati tendono ad assecondare, quando non a promuovere.