ragazza con borsa e rotaie

Tetrafobia

Mio padre è in fin di vita e io sto tornando a casa. Sii adulto e smettila di cazzeggiare lì a Rimini, vieni subito a Milano, se vuoi fare in tempo, ha consigliato ieri sera mia sorella maggiore. In realtà non sto proprio a Rimini, ma a Viserba. Ormai già da due estati il bagno Anna mi assume come bagnino stagionale; la paga non è il massimo, però mi faccio le vacanze al mare spesate.

Il viaggio in treno è scomodo, ma non ho l’auto e devo adattarmi. Aspetto il regionale 3018 diretto a Bologna e poi da lì prenderò un Italo 9996 con arrivo in Centrale alle 23.15. La stazione di Viserba fa veramente schifo, un solo binario e nessun sottopassaggio. Ambienti con masserizie collocate abusivamente. I vigili ogni tanto fanno un repulisti, però dopo pochi mesi tutto torna come prima. Tommaso, il titolare dei bagni, è figlio di operai. I suoi genitori negli anni ‘70 lavoravano entrambi alla Valleverde di Coriano, ai tempi in cui l’azienda contava poco meno di 300 dipendenti: hanno fatto in tempo ad andare in pensione prima della definitiva delocalizzazione. L’attività di produzione delle scarpe dal 2018 è concentrata in Estremo Oriente o in Europa dell’Est. Tommaso ha una figlia tredicenne di nome Vanessa che a settembre inizierà la terza media; è convinta che da grande vivrà facendo l’influencer su Instagram ed è il tipo che dalle mie parti si definirebbe CBCR (Cresci Bene Che Ripasso); pare che proprio dalle parti della stazione, qualche tempo fa un marocchino le abbia rivolto pesanti apprezzamenti. Tommaso ha le idee chiare al riguardo.

-Ha ragione Salvini, bisogna usare le ruspe e stop invasione. Devono farlo lavorare, al Capitano, e io lo voto perché è ora di smetterla che tutti ‘sti negri arrivano qui. E poi toccherà cacciare quelli che ci sono già. 

Così mi dice Tommaso nelle ore più calde, quando nel bar dello stabilimento rimaniamo soli perché le persone non restano in spiaggia dal momento che tornano in appartamento per il pranzo e per una pennichella. Tommaso non fa mai uno scontrino, sostiene che se pagasse tutte le tasse fallirebbe dopo due giorni. 

Alla stazione l’asfalto della banchina rimanda un miscuglio di caldo della giornata, odore di piante in decomposizione e sentore di piscio. Qualche topolino corre a lato dei binari, nella fossa. Siamo in pochi ad aspettare il treno, ci sono solo altri quattro in stazione a parte me; del resto chi potrebbe mai voler tornare in città, che sia Bologna o sia Milano, il 4 di agosto?

C’è una signora sudamericana enorme sulla cinquantina, più larga che alta, il cui bagaglio è stato sistemato in due capienti borse della spesa di nylon, da cui spunta un peluche a forma di coniglio. Un afro con la capigliatura alla Yannick Noah passeggia avanti e indietro con calma davanti alla panchina, indossando ciabatte infradito, calzoni corti della Adidas e una camicetta con motivi floreali. Fuma la sigaretta elettronica e intanto non smette di urlare al telefono. Non sta litigando, è proprio il suo modo di conversare, come se dovesse farsi sentire fino in Nigeria. C’è una coppia di fidanzati sui sedici diciassette anni, stanno abbracciati tutto il tempo a baciarsi in bocca, incuranti degli altri; lei indossa degli short, di quel tipo che scopre parzialmente i glutei, su uno dei quali le mani del ragazzo sono come incollate. 

E poi ci sono io che provo a leggere Un anno sull’altipiano sul mio Kobo, parte integrante dell’esame di letteratura italiana contemporanea del professor Sandretti Rossi, che quest’anno ha tenuto un monografico sugli scrittori italiani nella Grande Guerra e ha parlato di Serra, Ungaretti, Lussu. Devo dare l’esame a settembre. Siccome sono un po’ ansioso e temo sempre di perdere il treno, sono arrivato mezz’ora prima, ma il contesto disturbante mi deconcentra in continuazione. Mando un messaggio a mia sorella per avvisare che sto per partire, il treno è stato annunciato, e cerco di ipotizzare quale possa essere una carrozza tranquilla. Non so perché, ma le sue ruote mi sembrano cariche di spigoli, più simili a poligoni che a sfere perfette. Salgo sulla numero 4. In coreano, come del resto in cinese e in giapponese, la pronuncia del numero 4 è simile a quella della parola morte e infatti negli ascensori coreani preferiscono chiamarlo fourth all’inglese oppure saltarlo direttamente, nella numerazione dei piani dell’edificio. Io invece salgo proprio sulla 4: per fortuna non sono cinese, o coreano, e fatico a comprendere la tetrafobia.

Nonostante le mie aspettative, il treno è piuttosto affollato di gente salita già a Rimini, che torna da una giornata spensierata al mare. Confesso che nella scelta del mio posto a sedere seguo un criterio eminentemente estetico: mi piazzo accanto a una splendida ragazza, che avrà qualche anno in più di me, già accomodata sul lato del finestrino. Dal momento che è impegnata a parlare con lo smartphone, la mia richiesta di conferma della disponibilità del posto e il suo assenso avvengono attraverso cenni del capo. 

-Ciao, mamma. Tutto bene, sì. Sono appena partita da… Viserba, sì, Viserba. Dovrei essere lì a Ravenna tra un’oretta. Alle 20.41. Mi viene a prendere papà in stazione? Bene, ti squillo quando il treno è a Cervia. Mi hai preparato il brodetto per cena… che gentile, ma grazie! 

Ho lo zainetto sulle gambe e dovrei dedicarmi alla lettura, ma la telefonata a 20 centimetri non aiuta. E poi i vagoni sono stretti e ho praticamente le sue gambe, le sue lunghissime e affusolatissime gambe, sul mio fianco destro. Dalla conversazione capisco che forse lavora come commessa, ma per me potrebbe fare la modella: biondissima con capelli lunghi e lisci, indossa una cortissima gonna nera a pantalone e una maglietta arancione piuttosto aderente e rivelatrice di curve. Probabilmente sono distratto più dal suo aspetto fisico, visto che il volume della chiacchierata con la madre è accettabile. Anzi è così, non raccontiamoci storie. Raramente si incontra qualcuna di simile. Decido di compiere uno sforzo di volontà e di riprendere il mio Lussu, provando per quanto possibile a darle le spalle, ma lo spigolo del bracciolo si impianta nella scapola costringendomi a tornare come prima. Nel frattempo la telefonata è finita e lei armeggia nella sua borsa a mano O Bag, della stessa tonalità arancione della maglietta. Non sarò mai abbastanza sorpreso riguardo la capacità femminile di abbinare colori identici e di trovare accessori perfettamente in tinta con gli indumenti. Io indosso, come ogni uomo, la prima cosa che capita a tiro nell’armadio. La sconosciuta ha persino lo smalto sulle unghie perfettamente sintonizzato con borsa e t-shirt.

Estrae un Kindle e così si accorge che io posseggo un Kobo. Mi sorride. Mentre lo accende riesco a sbirciare che sta leggendo Kent Haruf. La situazione offrirebbe molti spunti di approccio: passione comune per la lettura (digitale poi!) oppure comparazione tra autori, tra generi letterari. O tra dispositivi. A me personalmente il Kindle non piace, detesto il fatto che usi un formato proprietario che limita la lettura a quel dispositivo. Devi per forza comprare su Amazon e devi per forza leggere col Kindle. Meglio l’epub e i dispositivi compatibili, come il mio. Si, si potrebbe iniziare una conversazione in questo modo: scusi, passi per Kent Haruf, ma perché proprio il Kindle e non il Kobo o il più esoterico Tolino? Piacere, Diego.

Invece sprofondiamo ambedue nella lettura. Ogni tanto la guardo, senza farmi notare, fingendo di osservare il panorama dal finestrino. 

Si avvisano i signori passeggeri che siamo in arrivo alla stazione di Ravenna. Il cellulare vibra, è un messaggio di mia sorella Carla. Non c’è più fretta di arrivare, dice. Non c’è più. 

Il Kindle, spento, torna in borsa. Mi scusi, devo scendere, si sposterebbe per farmi passare? Grazie, gentilissimo.Ora sono sinceramente tentato, prima che lei arrivi a destinazione, dopo aver realizzato che non la incontrerò mai più, di dirle mentre si alza e mi passa davanti: grazie per la bellezza che mi hai regalato e che ha reso sopportabile tutto: il caldo, la solitudine, il viaggio, la noia, la morte di mio padre che non vedrò più vivo. Però, però, però, però… sono più giovane, anonimo e inoltre con le donne non ci so fare, altro che i vitelloni romagnoli anni ‘80. Sarebbe un’estrema possibilità di vita, ma infine realizzo che nel XXI secolo all’uomo occidentale non è più consentito complimentarsi con una donna, rivolgerle una galanteria, senza essere frainteso e considerato uno stalker. Con questa paura, perennemente in agguato, ci hanno derubati del lievito del corteggiamento. Esito. L’incertezza diventa rinuncia. Fisso l’immagine del suo corpo nella memoria, scolpita nitidamente, mentre la osservo dirigersi verso le porte. La sosta dura quattro minuti. Ecco. Il treno va, scomparirà dietro le nuvole bionde, sulle sue ruote rotonde, ormai.