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Reparto geriatrico

IL FIGLIO

La nonna è in ospedale da ottobre e non si sa se tornerà a casa. Mio padre ne discute frequentemente con mia madre, percepisco la tensione nei loro dialoghi, vedo la commozione che sempre più spesso interrompe le conversazioni sul divano dopo cena e io capisco solo che la situazione è molto triste. Si abbracciano e io mi avvicino per unirmi a loro. Sarebbe bello che mi parlassero in modo chiaro, del resto ho già quindici anni, non sono più un lattante. Credo che questa riservatezza sia una forma di protezione da parte dei miei, ma gli adulti non comprendono che tanto la sofferenza arriva ugualmente a noi ragazzi; tanto varrebbe spiegarla, farcela indagare, per renderla più gestibile, piuttosto che regalarci un grumo indistinto di angoscia. O forse negarla a noi è un modo che hanno di rimuoverla per se stessi. Se avrò figli non nasconderò mai loro il dolore.

IL PADRE

In ospedale ogni reparto è caratterizzato da un suo tipico odore, sarebbe meglio chiamarla puzza, ma geriatria li batte tutti. Esiste una definizione di reparto geriatrico sulla carta e poi esiste la realtà dei fatti. In teoria un geriatra si occupa di gestire i problemi sanitari della terza età, che possono essere di vario tipo: diabete, artrite, ipertensione, Alzheimer e altri disturbi della memoria, patologie cognitive, cardiovascolari. Un geriatra pertanto possiede un vasto repertorio di competenze mediche ed è il più interdisciplinare tra gli specialisti. 

Ciò che mi colpisce sempre è il miscuglio di suoni che accompagna le sensazioni olfattive, non appena si entra. Una base di lamenti, a basso volume. Il ronzio della tele accesa nella sala parenti, che nessuno guarda. Le percussioni di Gino, 92 anni, della stanza 4, che chiama in continuazione ad alta voce la moglie Wanda, morta da sei anni. Agli archi Teresa, che tira a intervalli regolari la corda per l’intervento degli infermieri, attivando un allarme che riecheggia invano per lunghissimi minuti prima che qualcuno si presenti. E quando un camice bianco finalmente appare, la misura di quanto quei degenti siano ormai infantilizzati è data dal tu con cui ci si rivolge loro. Tu perchè hai suonato? Tu che cosa vuoi ancora adesso? Tu lo sai che non sei l’unico qua dentro? A un paziente che non fosse in fin di vita, a un malato che fosse più giovane, non si parlerebbe in questo modo. 

IL FIGLIO

L’unica volta che sono entrato nel reparto, non ho resistito a lungo: mi sono spostato sulle panchine fuori le vetrate. Pazienza se c’è un neon guasto che ronza. Siccome appena si apre la finestra di visita per i parenti i malati hanno giusto terminato il pranzo o la cena, in corridoio è fortissimo quell’odore di cibo stantio da mensa scolastica, ma quello sarebbe il meno dopo tanti anni di scuola; il fatto è che questo si salda con un sottofondo di aria viziata, di sudore -e di merda. Inoltre c’è un altro sentore: inizialmente non comprendevo bene da dove provenisse, poi ho capito. È odore di morte, come se gli anziani cominciassero a decomporsi già prima di esalare l’ultimo respiro. Così, dopo la prima volta mio padre mi ha consigliato di rimanere fuori ad aspettarlo. Dopo circa due settimane, sul pianerottolo ho conosciuto Noemi, quindicenne come me. Frequenta il liceo linguistico e ha il nonno di 84 anni appena ricoverato, dopo una frattura al femore. Non mi sembra preoccupata come lo sono io per mia nonna; pure lei si siede fuori e aspetta che la visita dei suoi genitori finisca, sfogliando Instagram e le storie delle sue amiche. 

-Ce l’hai pure tu un profilo? Mi ha subito chiesto la prima volta che si è seduta accanto. 

-Si, devi cercare ValeMannilloOfficial.

-Io sono Noemi2002Real. Mi followi?

-Ok, ti seguo. 

Dopo mi ha cinto le spalle e mentre mi abbracciava ha tenuto le labbra serrate imitando le pose delle sorelle Kardashian. Poi ha pubblicato il selfie taggandomi. Ho dato subito un’occhiata e le ho detto il tuo profilo Instagram è molto interessante: selfie in casa, selfie al mare, selfie al ristorante. Si è messa a ridere. Scemo.

IL PADRE

In ospedale, se il reparto è di lungodegenti, alla fine si entra in confidenza con tutti i parenti. Per esempio io ho conosciuto un fan di Pino Aprile. Non appena ha saputo che in famiglia siamo di origine meridionale ha attaccato con la predica, per convertirmi.

-Il Risorgimento è stato un crimine, un genocidio, una sciagura. Purtroppo la storia è stata scritta dai vincitori, cioè dai piemontesi. L’ho letto su Internet. Conosce Pino Aprile? Compri i suoi libri, porta dei fatti in-con-fu-ta-bi-li.

-No, veramente no. In quale università insegna? Però conosco Alessandro Barbero, anche se non personalmente.

-Ah, ma quello è un servo dell’establishment. Basta con la dittatura dei professori. Provi a cercare su Google “neoborbonismo”: non è vero che i Borbone erano arretrati e affamatori. Per esempio, lo sa lei dov’è stata costruita la prima ferrovia in Italia? A Napoli. Si informi.

Ora, quando uno nella vita incontra un cretino di tal fatta, ha due strade: provare a contestare, ad argomentare, a farlo rientrare nella ragione; oppure assecondare con brevi cenni del capo e monosillabi. In genere opto per la seconda. Da quanto ho scoperto che esiste l’effetto Dunning-Kruger ho compreso che la verità, proprio perché complessa e problematica, fatica ad affermarsi sulle menzogne.

Tutte le sere medesima ramanzina. Per fortuna che alle 18 in punto entra l’oss con il pasto, così Franceschiello è intento a sfamare sua madre, allettata. 

IL FIGLIO

Prima di salire ho detto a mio padre di andare avanti: mi sono fermato a comprare una lattina ai distributori automatici. Ora sono davanti al tastierino numerico indeciso tra una Fanta senza zucchero e una Schweppes. Guardo il pacchetto tra le mie mani e mi sento tenero. Mi avvicino alla finestra e rifletto sull’ambiente puzzolente. Ho sempre odiato gli ospedali con il loro richiamo alla perdita. Questo è un luogo che incoraggia la mia tendenza a sentirmi tenero.

Poi intravedo qualcosa in lontananza, o meglio qualcuno. È la figura di Noemi. Noemi è un fiore arrabbiato con capezzoli sinuosi, suggeriti attraverso la maglietta, e dita lunghe senza smalto. Mentre lei si avvicina sorridendo e agitando la mano, guardo il mio riflesso nel vetro. Sono uno snob bevitore di Fanta amara che sogna capezzoli soffici e mani affusolate. I miei amici mi vedono come una stella spumeggiante dei social, perché sono quello che fa sempre lo scemo nelle foto per far ridere tutti. In realtà quando è svenuta in cucina, pochi minuti prima che chiamassimo l’ambulanza, sono stato io a provare a rianimare la mia morente, vecchia nonna, con le tecniche di primo soccorso che hanno insegnato a scuola. Ma nemmeno un ragazzo snob che ha rianimato una morente, vecchia nonna, è preparato per ciò che Noemi ha in serbo oggi.

La neve turbina come una nuvola di mosche, rendendomi agitato. Mentre io sto fermo e Noemi si avvicina, posso vedere un rapido scintillio nei suoi occhi. Alla fine è a distanza ravvicinata col mio viso. Mi guarda immobile in silenzio. All’improvviso annuncia, con toni sommessi, quasi si vergognasse: “Ti amo e voglio un bacio”.

Mi volgo indietro, ancora più agitato e nascondendo in tasca il pacchetto. “Noemi, quindi io sono il tuo ragazzo?” domando.

Ci guardiamo l’un l’altra con sentimenti confusi, senza considerare i funerali cui parteciperemo di lì a poco, con il loro contorno di musica new age prima che la cassa entri nel forno. Sul suo viso si disegna un’espressione che non risponde alla mia richiesta, compiaciuta ma anche spaventata, come a dire un passo per volta. Avanza, di un che di impercettibile.

Non posso fare a meno di riconsiderare i capezzoli sinuosi di Noemi e le dita lunghe senza smalto. Glielo dico che è il mio primo bacio? “Mi sento allo stesso modo” conferma il mio corpo infine a testa bassa. Estraggo il pacchetto e lo mostro, ma lascio a lei la decisione di prenderlo.

Noemi sembra più grande dei suoi 15 anni. Mi toglie la Fanta dalle mani, scaraventa il pacchetto in terra senza aprirlo e pressa le sue labbra contro le mie.

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IL PADRE

Il volontario dell’assistenza ospedaliera indossa una camicia a fiorelloni sotto la divisa color carta da zucchero. Sul tesserino appuntato si legge il nome Corrado. Annuncia il suo arrivo in modo eclatante:

-Alloooora, ragazzeee! Buonasera, come va? In forma? Vi vedo meglio oggi.

Tra chi sonnecchia, chi si lamenta e chi è sordo non lo considera nessuno, quindi si dirige verso Renata che sta vicino alla finestra e che, nonostante una brutta frattura, è vigile. Renata ieri mi ha raccontato che è molto sola, il marito è morto quando era ancora giovane, la figlia abita a 350 chilometri e così lei è assistita da una vicina di casa romena che fa quel che può dal momento che lavora come colf da un avvocato. 

-Ma ciao, bella stellina! Dai, coraggio, che fra poco la gamba guarisce e puoi tornare a ballare il liscio con il moroso! Perché ce l’hai il moroso, vero? Ci vai in balera?

Di nuovo questo tu che invece di essere affettivo è solo umiliante. Renata non ribatte, però sul suo volto si disegna una smorza di sofferenza e non si comprende se provenga dalla gamba o dalle parole che ascolta. Finge di assopirsi; il volontario sfodera alla stanza un sorriso a bocca spalancata ed esce a passi rapidi dalla stanza, minacciando: a domani!

Renata apre gli occhi. 

-Ma come si permette questo di parlarmi così? Non lo capisce che qui stiamo male, che non abbiamo voglia di ridere? Le sembra normale?

Io taccio. 

-Nemmeno da fidanzata andavo a ballare col mio futuro marito: ci volevano i soldi e noi non ne avevamo! Che ne sa cost-sì? Dico bene? Ma le pare?

Qualcosa devo pur dire a questo punto. Faccio un minimo cenno di assenso e Renata scoppia in lacrime.

IL FIGLIO

Mio padre mi ha detto ma cosa vieni a fare ogni giorno se poi passi tutto il tempo a parlare con quella, sulle panchine là fuori. Ho risposto che mi piace viaggiare in macchina con lui. Noemi mi ha invitato per una cioccolata calda dopo la prima volta che ci siamo visti. Magari potremmo incontrarci anche una volta fuori da qui, no? aveva proposto roteando la mano a disegnare tutta la zona di attesa antistante il reparto. 

Seguivo mio padre verso la macchina sistemata nel parcheggio e lei accompagnava sua madre alla fermata del bus: da lontano le ho fatto segno di ok con la mano. Mentre mio padre apriva la portiera, ha notato il graffio prodotto con un cacciavite. Lui non dà mai un centesimo ai posteggiatori abusivi.

-Maledetti maghrebini bastardi. Poi dicono che uno vota Casapound.

-Papà, dai. Una roba superficiale, credo che andrà via con un po’ di polish.

-Dovrebbero pensarci i vigili, invece quando li chiami rispondono che sono impotenti o che passeranno quando potranno. Monta su che andiamo dal carrozziere.

-Come sta nonna?
-Uguale.

A bordo mi domanda ma chi è la ragazza col caschetto nero, la mini mimetica e il piercing alle orecchie cui hai fatto ok da lontano? Un’amica rispondo cambiando argomento. Su Amazon il polish rinnovante sta a 12 euro, forse conviene non passare in negozio e risparmiare tre quattro euro.

Finché il graffio non è stato riparato per bene e la fiancata non è tornata immacolata, per qualche giorno mio padre ha squadrato le carrozzerie di ogni auto parcheggiata in cerca di bolli, graffi e imperfezioni. Quando ne trovava una più danneggiata della sua, si rallegrava con soddisfazione.

IL PADRE

Un altro momento di intensa socialità è il monitoraggio terapeutico o il cambio del paziente. I parenti sono invitati a uscire dalle stanze e sostano in corridoio, in alcuni casi anche a lungo. Adele, 89 anni, è un’oncologica grave dirottata in geriatria un po’ perché non c’è spazio in oncologia e un po’ perché ormai c’è poco da fare. Sua nipote Caterina è la sola a occuparsene.

In corridoio, mi racconta la sua vita nel giro di cinque minuti. In alcuni la sofferenza fa cadere ogni barriera, ci si confessa con gli sconosciuti come se fossero amici di lunga data.

-Ci sono solo io nella mia famiglia a guardarla. Ho dovuto arrivare io dalla Danimarca, altrimenti era lasciata a se stessa. Povera nonna, ridotta in uno stato che quando le parlo nemmeno sa più chi io sia. Mi ha cresciuto lei, i miei genitori erano separati ed erano troppo impegnati a litigare o a lavorare. Mio padre è ingegnere, ha costruito impianti industriali in tutto il mondo, Russia, Qatar, Indonesia. Non era mai a casa e un giorno ha deciso che era meglio non tornare proprio. 

-Danimarca?

-Sono anch’io ingegnere. Civile. Vivo da tre anni ad Århus. Lavoro per un’impresa italiana che sta costruendo la metropolitana leggera di Århus. È il primo progetto ferroviario leggero in Danimarca. Lo terminiamo tra pochi mesi, è qualche anno che va avanti. Mia sorella invece abita qui, ma non ne vuole sapere. Io dico, ogni tanto fatti vedere no? Troppi impegni dice. Mia madre è un’incapace mezza alcolista, le serve qualcuno che badi a lei. E io ho dovuto litigare col capo cantiere per prendermi quindici giorni di ferie.

-E come si sta in Danimarca? Ha dovuto impare il danese?

-In cantiere siamo tutti italiani e coi danesi si parla inglese. Non è come in Italia dove la gente non sa manco l’italiano. La vita… non si sta male. Quando c’era anche mio marito era meglio. A un certo punto si è stufato e mi ha lasciato. Ho nostalgia del mio paese, ha detto, e tanti saluti. Per fortuna non avevamo figli. Che io sappia adesso sta con un’altra ed è in arrivo un bebè. E ora tutto questo, mi sembra ieri che facevo merenda con pane e pomodoro a casa della nonna.

A questo punto la voce inizia a incrinarsi e a tremare. Se fossi più allenato nell’arte della consolazione, comprenderei che arrivano momenti nei quali la cosa giusta da fare è abbracciare un altro essere umano, nella sua fragilità. Infischiandosene delle complicazioni e dei possibili equivoci. Ma fin da piccolo mi è stato insegnato piuttosto il tabù del contatto e inculcato il valore dell’autocensura emotiva, così ciò che provo è l’imbarazzo. Provvidenzialmente l’infermiera esce dalla stanza, ma fa cenno di attendere ancora. Si allontana nel corridoio, entra in sala medica e ritorna dopo pochi istanti con un termometro e delle siringhe. Poi passa qualche minuto, apre la porta annunciando entrate pure, un po’ scura in volto.

IL FIGLIO

Al tavolino della cremeria Noemi mi ha raccontato che i genitori sono separati e lei sta una settimana con la madre e una col padre. Il venerdì sera prepara lo zainetto con i libri di scuola, i bloc notes, il romanzo in lettura, il diario segreto da cui non si separa mai e poi un contenitore dove tiene tutti i suoi piercing. Ne fa collezione.

-Il piercing all’orecchio è un compromesso, sai, in fondo non è tanto diverso da un orecchino. Mia madre li detesta, questo è stata una concessione. Appena sarò maggiorenne, ne voglio uno all’ombelico. E uno ai capezzoli, come Elettra Lamborghini. Lo sai che ne ha 40, alcuni anche nelle parti intime?

-A me fa impressione il piercing. Pure i tatuaggi. Li considero una forma di mortificazione. Perché ti piacciono tanto?

-Mah… non è vero. Anzi, per me i piercing rappresentano un fattore estetico. Il mio corpo è come un oggetto, una scultura, non c’è nulla di strano a impreziosirlo con un accessorio.

-E come si fa? Doloroso?

-Dipende dalle posizioni. Io ce l’ho all’elica dell’orecchio, è quasi tutta cartilagine quindi non è molto sensibile. Quando forano, il dolore si sopporta bene. A me piacciono tanto i piercing coi brillantini, mi mettono allegria. Ne ho visto uno a forma di anello, in oro 14 carati con filo intrecciato, ma costa 90 euro e non me lo posso permettere. Mica giro in Classe C, io. Te lo mostro, ho la foto sul cellulare.

Ho guardato il luccicante piercing nello schermo e mi sono sentito calmo. Questa tranquillità si è estesa come per incanto a tutto il locale. Non lo avevo notato subito, ma oggi c’è pochissima gente. Ed è strano che tutto questo mi piaccia, perché ho sempre amato i locali affollati visto che sono un ottimo posto per essere anonimi. Anche Noemi mi piace ma non so il motivo.

Mentre usciamo dal locale e ci salutiamo, osservo il disegno delle sue orecchie. Vorrei prenderle le mani e stringerle, ma tengo i pugni in tasca. Si allontana verso la fermata del bus, si gira per mandarmi un bacio con la mano. Io agito la mia nell’aria, che inizia a essere attraversata da sottili gocce di pioggia. Lei svolta l’angolo, dà un ultimo saluto e poi scompare dalla vista. 

Rientro nel locale. Il gestore mi guarda pensando cosa io ci faccia di nuovo lì, da solo; mi siedo, ordino una Fanta senza zucchero e mi metto a cercare su Internet dove si può acquistare quel piercing.

IL PADRE

In un reparto così, muoiono due o tre persone al giorno, persone che avevi visto il giorno prima. Arrivi, noti il letto vuoto, ma a differenza che altrove non sono stati dimessi. Proprio accanto alla sala medica c’è un salone con panchine e tv. Ogni tanto passando ho intravisto un separé azzurrognolo pieghevole e, dietro, un paziente collegato a un dispositivo per ECG. Inizialmente ero sorpreso, mi è sembrata una stranezza, poi ho capito. Facevano un tanatogramma. Il tanatogramma è la registrazione elettrica, protratta per 20 minuti, dell’attività elettrica del cuore, per documentarne l’assenza. Serve a certificare il decesso. Erano tutti morti.

Una sera ho visto che in barella dietro al paravento c’era Adele. Mi sono affrettato per entrare nella stanza dove era ricoverata, ma non c’era nessun parente in quel momento. Perché così si muore: da soli. Nemmeno la nipote danese era in ospedale.

Non siamo mai veramente capaci di confortare nessuno.