Correre

Correre

Una persona media, moderatamente attiva, compie circa 7.500 passi al giorno. Se mantieni la media giornaliera e vivi fino a 80 anni di età, avrai camminato per circa 216.262.500 passi nella tua vita. Fai un po’ i conti: una persona comune, finché campa, camminerà per una distanza di circa 177.000 chilometri. In pratica, andrà da Torino a Venezia e tornerà indietro più di 22.000 volte. Non dovrebbero sussistere ulteriori dubbi sul perché si muore stanchi. Detto questo, a me camminare piace un sacco: da qualche tempo pratico il fitwalking, un ottimo metodo per perdere peso e mantenere in efficienza il muscolo cardiaco. Durante la settimana mi alleno nei paraggi della mia abitazione, il sabato o la domenica in qualche parco cittadino.  

Quest’anno ho deciso di partecipare a un evento di rilevanza nazionale, Fitwalking per la Vita (la maiuscola è essenziale), che si tiene dalle parti di Sassari a fine ottobre. Per risparmiare ho prenotato tutto già a giugno: volo aereo con partenza da Caselle alle 7:20 e arrivo a Olbia alle 10:15; noleggio di un’automobile (verso le 13 dovrei raggiungere Sassari) e sistemazione all’Hotel Marini. Breve visita della città, la mattina dopo manifestazione e ripartenza per casa solo nel pomeriggio di lunedì: anche per questo, ho già preso ferie e avvisato il capo ufficio.

Sono metodico e pignolo e forse per questo gli altri sono poco propensi a socializzare con me, lo so che pensano è un fissato, uno spaccamaroni. Dicono di me, che sono una strega drogata e truccata e piena di sè… E dicono di me, che sono una stupida frase da dire davanti a un caffè… E invece no: offro sempre una seconda possibilità. Se una ragazza mi fa aspettare un quarto d’ora dopo che le ho citofonato in anticipo di cinque minuti al primo appuntamento – il che significa soltanto essere puntuali – non mi interessa, potrà anche indossare una minigonna o un toppino aderente, ma difficilmente avrà un terzo appuntamento se la seconda volta l’attesa si ripropone. E dal momento che le donne vivono in perenne ritardo, a 39 anni sono ancora single e abito con mia madre: almeno lei è puntuale. Ogni mattina mi sveglia alle 7 spaccate e alle 7 e 30, cascasse il mondo, la colazione è servita.

Sono arrivato sul luogo del raduno mezz’ora prima: dall’hotel il navigatore segnalava un percorso di 36 minuti, ma sono partito con un po’ di anticipo caso mai si fosse verificato qualche contrattempo, uno sbaglio di itinerario, una gomma forata. Mi dirigo verso la punzonatura, presento la ricevuta del pagamento della quota di iscrizione e mi viene assegnato il numero 416; mentre firmo il registro dei partecipanti l’occhio scivola su un nominativo che non mi suona completamente nuovo: Dutto Vittoria. Ha già firmato, quindi dev’essere già in giro. Mi volto e faccio roteare lo sguardo, c’è già parecchia gente e non si distinguono molto bene le singolarità. Percorro il perimetro della piazzola dove è allestito il checkpoint: vicino all’ambulanza della Croce Rossa staziona un gruppo di sessantenni con tute ginniche piene di sponsor e cardiofrequenzimetri al polso. Parlano con la volontaria, che potrebbe essere loro nipote, raccontandole quanto poco ci impiegano a fare cinque chilometri in camminata veloce e intanto sorseggiano bevande energetiche dalle bottiglie di plastica trasparente. Accanto al pulmino del ristoro una decina di bambini, coi rispettivi genitori, implorano l’acquisto di un panino alla porchetta, di un hot dog o di un pacchetto di patatine. Mi dirigo verso il bar tabaccheria per dare un’occhiata. Una donna col caschetto biondo, che avrà due o tre anni più di me, in maglietta color grafite e cortissimi pantaloncini verdi sta consultando gli espositori delle cartoline. Le hanno assegnato il numero 369. 

-Come sta Flavio? Non lo vedo da quasi trent’anni.

Vittoria mi fissa interrogativamente. Come fa a sapere il nome di mio fratello? domanda dopo avermi inutilmente squadrato per ripescarmi da qualche cassetto della memoria.

-Beh, era quello che ti consegnava le lettere cui tu non hai mai risposto.

Da qualche parte è scattato un interruttore. Lentamente si ricompone un mosaico e la messa a fuoco si perfeziona: Venezia! 1980. Che ci fai qui?

-Potrei chiedere la stessa cosa. Cammino, più velocemente che posso. Fa bene al cuore. E tu? 

-Ci provo, ride. Ma ogni tanto inciampo e mi fermo un po’. Che combinazione… dopo quanto tempo.

-Davvero. Sola? Possiamo camminare e chiacchierare? E intanto ricordano lo start di lì a cinque minuti.

Ci accalchiamo verso la partenza insieme agli altri partecipanti. I pensionati di prima armeggiano nuovamente con il cardiofrequenzimetro e si scambiano pareri sulle caratteristiche dei rispettivi modelli. Partiamo.

-Chi vorresti avere come ospite a cena, se potessi essere libero di scegliere tra tutte le persone al mondo? chiede Vittoria mentre il gregge inizia la sua camminata.

-Persone famose intendi, o anche comuni mortali? 

-Come vuoi.

-Se proprio avessi la bacchetta magica, vorrei avere come ospite Michel Houellebecq.

-E chi sarebbe? Mi sarei aspettata un’attrice, una modella, che so: Gisele Bündchen…

-Bella considerazione che hai di me dopo trent’anni, grazie. Comunque, è uno scrittore francese. Dovresti leggere quanto meno Le particelle elementari e il suo seguito ideale, La possibilità di un’isola.

-Non lo conosco. Se piace a te sarà troppo difficile e impegnativo. Io voglio cose che mi svaghino, tipo Faletti o Dan Brown. Perché è importante questo francese? Come si chiama? Ouelmecq?

-Houellebecq. In assoluto è lo scrittore che racconta meglio il mondo occidentale odierno, mettendo il dito nella piaga e senza voler essere gradevole a tutti i costi. Le relazioni umane (e in particolare quelle tra uomo e donna) sono descritte abilmente, inserite in un contesto di consumismo affettivo ed erotico. Io spesso mi sono riconosciuto nella solitudine esistenziale che descrive magistralmente, e che è tipica dell’uomo del XX secolo.

-Mi pare davvero noioso. Ma non puoi leggere libri più divertenti? Già la vita reale è pesante di suo, se poi ti incupisci anche con i libri o con i film…

-Il tuo è il ragionamento tipico di chi non vuole preoccupazioni. Ma il dolore esiste indipendentemente dal fatto che tu lo consideri o lo riconosca, tanto vale esserne consapevole e rifletterci su, per affrontarlo meglio. L’arte (quando è vera) è sempre uno stimolo a questa meditazione, è un pugno nello stomaco; altrimenti è intrattenimento, ha una sua dignità, non lo nego, ma non è arte. Serve a di-vertire, cioè a non pensare, appunto. Io preferisco pensare.

-Mamma mia quanto sei saggio. Io invece vorrei cenare con te, se stasera sei libero. 

-Ma io non sono famoso.

-Se continui così lo diventerai: potrò dire di essere stata a cena con te? Ti piacerebbe diventare una celebrità?

-Come ha scritto Emily Dickinson, essere qualcuno è un orrore…

-No, però basta scrittori depressi, altrimenti ritiro l’invito per cena.

Arriviamo a una pausa di ristoro: io bevo un’acqua tonica aromatizzata al pompelmo e Vittoria apre una lattina di bibita energizzante. 

-Sai che io me li preparo in casa, da sola, gli energy drink? Prendo due cucchiaini di aceto di mele, un cucchiaio di miele biologico, mezzo litro di acqua frizzante e un quarto di radice di zenzero grattugiata. Mescolo tutto finché non si scioglie il miele e poi la consumo con abbondante ghiaccio. Superiore alla Red Bull, genuina e decisamente economica. Dovresti provare.

-La proverò quando avrai letto ogni riga della Dickinson.

-Stronzo.

-Io? Trent’anni fa non hai mai risposto ai miei bigliettini, dopo avermi mezzo sedotto in gita a Venezia. Non me lo sono mai spiegato, ma ti assicuro che ti ho dato della stronza. A lungo.

-Non c’è da niente da spiegare. Alle scuole medie vuoi mica che sia una cosa seria l’amore? Eri simpatico e grazioso, tutto qua, non mi ricordo nemmeno cosa io ti abbia detto per accenderti. Le compagne di classe mi prendevano in giro a causa tua, ti chiamavano “il moscone”.

-L’amore è sempre una cosa seria. A tutte le età. Però, almeno potevi dirmi che non ero di tuo interesse, ne sarei uscito prima. Ti ho pensata per mesi e mesi. Davvero ritieni che a dieci/dodici anni non si possa soffrire per i sentimenti? Sai ci son rimasto male, sei su un’astronave a un milione di anni luce da me, tu bionda e piena di attenzioni da tutti, io timido e non troppo ricercato dagli altri.

-E che cosa ti piaceva tanto di me? Solo l’aspetto fisico?

-Quello sì, non posso negarlo. Però da ragazzi ci si invaghisce più di una speranza, di un odore di felicità –o forse non ci si innamora mai se non di altro. Eri stata diretta e schietta, mi piaceva questo: e poi era affascinante che tu fossi più grande. Se piaccio a una che va già alle medie, devo essere speciale, magari sto già diventando un ometto, questo pensavo.

-Allora non era amore, solo voglia di crescere e di fare esperienze.

-Lo dici per sentirti meno in colpa.

Terminiamo la passeggiata senza scambiare altre battute. Quando la folla si è diradata, ci salutiamo e rinnoviamo l’appuntamento per la sera. Chiedo a Vittoria se le serve un passaggio, ma risponde di essere automunita e che la sua macchina non è molto lontana. Va bene, a dopo.

La stanza che mi hanno assegnato in albergo non è enorme, ma è dotata di ogni comodità. Mi congratulo con me stesso, mentre mi do una rinfrescata prima di uscire, per l’offerta che sono riuscito a scovare. Quando trovo un ottimo rapporto qualità-prezzo sono sempre rassicurato circa le mie capacità di essere un buon cittadino. La dotazione comprende TV a led da 32 pollici, cassetta di sicurezza ricavata dentro l’armadio, telefono in camera, box doccia che sto usando in questo momento con grande soddisfazione perché il miscelatore è precisissimo, frigo bar sotto il televisore e piccola scrivania a muro con angolo scrittura. D’accordo che siamo in bassa stagione, ma 45 euro a notte per tutto questo è veramente un bel colpo. Esco dalla doccia, mi asciugo i capelli con il phon a muro e presto attenzione a non avere spuntoni di capelli; rifinisco l’acconciatura con un piccolo tocco di gel. Sono un po’ in anticipo, la cena è per le 20.30 e il ristorante dista solo pochi minuti di camminata, ne approfitto per vedere il TG3. Negli ultimi giorni non si parla che della morte di questo Stefano Cucchi, avvenuta a Roma il 22 ottobre scorso, mentre il giovane era in caserma. Pare che l’avessero fermato una settimana prima mentre passava a qualcuno delle bustine trasparenti in cambio di una banconota. Portato in caserma, lo hanno perquisito e gli hanno trovato addosso diverse dosi di hashish e tre di cocaina. Il sottosegretario di stato Carlo Giovanardi (Popolo delle Libertà) racconta che è morto perché era anoressico e tossicodipendente, altri sostengono che sia stato pestato a morte dai carabinieri. A me pare che anche uno spacciatore tossicodipendente meriti pietà e compassione: tutti gli esseri umani la dovrebbero ricevere, specialmente da coloro che si professano credenti. E penso che le forze dell’ordine dovrebbero sempre rappresentare una sicurezza per la propria persona, pure quando ci si rapporta con loro da sospettati. Essere liberali significa anche essere garantisti, ma il problema in Italia è che spesso coloro che si dicono liberali sono in realtà populisti-nazionalisti che inseguono la pancia cattolica del paese, più simili a Jean Marie Le Pen, insomma, che a Piero Gobetti. Io sono per la liberalizzazione. Se avessero venduto l’hashish nelle tabaccherie, probabilmente quel giovane sarebbe ancora vivo. Questo vorrei spiegare, a Giovanardi.

Mi sveglio dalle mie elucubrazioni, che Vittoria troverebbe noiose e che rischiano di farmi arrivare in ritardo all’appuntamento. Completo la mia vestizione e opto per un look a metà tra il formale e il finto informale. Vittoria è puntualissima alla reception del mio albergo e camminiamo insieme fino al locale dove ho prenotato.

La trattoria propone carpaccio di carne, frittura di fiori di zucca, ventresca di tonno alla brace, entrecôte di vacca sarda, cipolle caramellate, caponata e amerindi di Mamma Bianca (che è la proprietaria del locale), il tutto abbinato a un vermentino fermo, bianco, secco che berrei a litri. Anche in questo caso, non posso che rallegrarmi per aver scelto un locale che rappresenta il giusto mix tra innovazione e tradizione, tra cucina familiare e sperimentazione gastronomica, a tariffe tutto sommato equilibrate in rapporto all’offerta.

-Non ti ho ancora chiesto quale lavoro fai, mi domanda Vittoria che nel passaggio dall’outfit sportivo a quello galante serale ha guadagnato parecchi punti di seduzione.

-Io lavoro come commesso in un mediastore. Tu?

-Io sono infermiera in un reparto geriatrico. Sarà per questo che sono piena di voglia di vivere, non faccio che assistere persone al termine della vita.

-Qual è il tuo ricordo peggiore della vita in ospedale?.

-Uno non immagina la quantità di persone che muoiono da sole. Ci sono tantissimi anziani abbandonati in reparto: i figli e i nipoti sono lontani o troppo impegnati a fare altro; oppure non sopportano il fastidio della cura. Io spero di non diventare un peso quando non sarò più autosufficiente né voglio morire elemosinando l’affetto di qualcuno che sfugge. Ricordo una signora che telefonava tutti i giorni al nipote e trovava sempre la segreteria, oppure il cellulare dall’altra parte squillava e nessuno rispondeva. Una volta era così disperata che mi ha chiesto di poter chiamare dal mio numero; il nipote ha risposto, ma poi quando gli ho passato la zia ha riattaccato. Il giorno dopo è morta, senza riuscire a sentirlo. Non ho bisogno di immergermi in romanzi tristi, come vedi: per me la realtà è già un pugno nello stomaco a sufficienza. Se ti fai un giro al pronto soccorso non hai più bisogno di quel tuo… Uell… o come si chiama. Lavorare in un posto simile ti cambia la prospettiva: personalmente ho acquisito un atteggiamento pragmatico nei confronti dell’esistenza e in genere cerco di non crearmi ulteriori problemi rispetto a quanti me ne presenta già la vita. E in un mediastore quali sono le scene cui si assiste?

-Non è una vita movimentata. C’è di buono che posso leggere a scrocco. Prendo i libri in esposizione e nei momenti di scarso afflusso li leggo, stando attento a non sciuparli. Poi li ripongo. Una volta hanno inseguito per l’intero centro commerciale un tizio che ha fatto saltare gli allarmi all’uscita: scappava con due borse piene di vocabolari italiano-arabo in formato tascabile e la sicurezza a inseguirlo per le vetrine. Non so come sia finita, in negozio i dizionari non li ho più rivisti.

Vittoria ride scompostamente, immaginando la scena. Poi annuncia, seria: Però ora smettiamola con i discorsi da filosofo, abbiamo già mangiato anche il dolce, la cucina sta per chiudere e fra poco porteranno il conto, per farci capire con tatto che è il caso di liberare il tavolo e di dare modo ai camerieri di riassettare. Bisogna terminare la serata.

Estrae dalla borsa una penna e strappa un foglio dall’agenda, poi scrive versi che iniziano tutti per lettera maiuscola. Pare quasi che li conosca a memoria, dal momento che non sembra durare alcuna fatica nel comporli. In cima annota un titolo: Dove ti aspetto per farmi perdonare.

Tentare di ridere nel dolore,

O posso pur smettere di sognare,

Il costo è di secoli di lacrime,

La gloria degli anziani è credere.

E così ora io vivo per vivere,

Titoli distinguono un mediocre,

Tessitore di molteplici muri,

E a Cesare ciò che è di Cesare.

Abbandona il foglietto con un sorriso accattivante, lo gira nella mia direzione di lettura e si allontana dal tavolo incurvandosi tra i tavolini, riuscendo a non inciampare nonostante i tacchi alti e il vermentino. Prendo il biglietto e lo rigiro nelle mani, cercando di capire. Alla fine realizzo: è un acrostico. Sono perplesso. Pure appassionata di enigmistica. Questa esplosione di libido, a scoppio ritardato, come va interpretata? E poi non ho nemmeno pensato di acquistare i profilattici. Ci può essere una rivincita dopo tanti anni? Decido che è possibile. Mi alzo, mi dirigo verso la cassa per saldare il conto e poi esco dal locale. L’aria serale è già piuttosto fresca, devo stringermi tra me e me per non essere sopraffatto dalla brezza che mi investe.

Alla reception chiedo la chiave della mia stanza e salgo senza prendere l’ascensore. Non ho completamente digerito le cipolle, guardo se in valigia ho il digestivo Antonetto, niente, l’ho scordato a casa. Preparo già i bagagli per la ripartenza del mattino successivo. Mi metto comodo e inizio a guardare un film di Carlo Vanzina che danno su Italia1, Il ritorno del Monnezza. Dopo mezz’ora sento bussare con veemenza alla porta della camera. Chi diavolo mai sarà, penso alzandomi dal letto sorpreso. Apro solo parzialmente: è Vittoria, che si intrufola giusto a metà tra l’uscio e la camera.

-Il capolavoro poetico è tuo? domando sarcastico. -Ascolta, già è stato abbastanza un caso ritrovarsi. Quando sono uscita dal gabinetto del ristorante dopo averti atteso per quindici minuti senza che tu arrivassi, ho capito il messaggio. Adesso siamo pari, anzi; ho sempre da farmi perdonare la tristezza che ti ho causato, perché non è vero che i bambini non si innamorano. Meglio correre, altro che fitwalking, sentenzia Vittoria, mentre richiude la porta alle spalle, toglie le scarpe, getta in terra la camicetta, si slaccia il reggiseno e mi spinge con forza verso il letto.