Dennis Hopper, Automat

Mancarsi

Mi sono laureato in giurisprudenza a ottobre e ho trovato subito impiego in uno studio legale. Cit Turin è un quartiere pieno di notai e avvocati. Al colloquio il dott. Natuzzi è stato molto chiaro:

-Siamo un piccolo studio, orario di ufficio, niente paga. Almeno finché non sei più autonomo. Cancelleria, redazione atti, ufficio postale, notifiche… le cose che si sanno, insomma.

-Nessun problema.

-Cominci pure lunedi alle 8.30.

Dopo sei mesi ho iniziato a percepire qualcosa, 130 euro al mese, che piano piano son saliti a 300. Mi ritengo fortunato perché lo studio è a pochi minuti a piedi dalla stazione di Porta Susa sotterranea, che a sua volta dista tre minuti dicasi tre minuti tre di viaggio in treno da Rebaudengo Fossata. Rebaudengo Fossata è anche lei sotterranea: una volta al suo posto c’era un parco. L’hanno tolto per una stazione tristissima: sono finiti i soldi, ma è diventata ugualmente operativa, però senza arredi. In pratica è un rettangolone di cemento senza rivestimenti, le biglietterie sono solo automatiche, non esistono i gabinetti e le scale mobili sono fuori uso per mesi. Sulla banchina dei due binari però c’è un distributore di snack yourbestbreak.com fornito di tramezzini al praga e carciofini oppure al cocktail di gamberetti. Dal retro del parcheggio esterno, oltre le transenne dei lavori interminati sbucano ulteriori scale mobili, pure loro mai concluse e completamente in malora. Tutto triste? No, anzi: è fichissimo arrivare in centro in tre-minuti-tre per recarsi al lavoro allo studio Natuzzi. 

Mentre viaggio ogni mattina, canticchio mentalmente una filastrocca inventata da me, che abbraccia l’intero percorso urbano del Servizio Ferroviario Metropolitano:

Torino Stura

la vita è dura

Rebaudengo Fossata

la vita è una cagata

Torino Porta Susa

la vita è astrusa

Torino Lingotto

la vita è un cazzotto

E siccome gli individui sono abitudinari, me compreso, e prendono il medesimo treno delle 8.09 finisce che ogni giorno incroci gli stessi volti. Si potrebbe diventare tutti amici, ma non si saluta nessuno. Sarà colpa del viaggio troppo breve? Tuttavia avrei bisogno di socializzare, di fare conoscenze, specie femminili, perché sono nel fior degli ormoni (ho 25 anni) e non ho la ragazza. O mamma, mi ci vuol la fidanzata, perché io devo mettere la testa a posto. O mamma, mi ci vuol la fidanzata, una che mi faccia vivere nel modo giusto e non così. Sono in preda a una psicosi, rischio una nevrosi.

Il mio compagno di Università Lorenzo me lo ha rivelato:

-Devi osservare se portano anelli. Se non hanno anelli alle dita vuol dire che sono single.
-Vero dici?
-Strasicuro. Certissimo. E poi: fai cose, vedi gente… iscriviti in palestra, a un corso di macarena, che so, insomma… mica devo insegnarti tutto!
-Farò attenzione. Farò palestra e il resto.

Poco prima dello studio Natuzzi, all’angolo con una via di scorrimento, c’è il bar Jolly. Ha il dehors anche in inverno; dovrebbe essere piuttosto frequentato sia per la zona sia per l’ubicazione, invece ci sono sempre pochi avventori. L’arredamento è ultramoderno, un bancone lungo con molte luci a led sul soffitto appena dopo l’ingresso, una zona consumazione un poco più raccolta le cui pareti sono decorate con riproduzioni di Roy Lichtenstein.

Dennis Hopper, Automat

Io faccio colazione a casa, con quello che guadagno è un modo di fare risparmio, però passo davanti al bar Jolly ogni mattina prima di citofonare in ufficio. Semivuoto il locale ma c’è lei, seduta inevitabilmente allo stesso tavolino, l’ultimo nell’angolino a destra prima delle porte di servizio; sempre rivolta verso il bancone mentre fa colazione invariabilmente da sola. Non c’è nessuno a casa con cui farla?

Le persone sole nei caffè sono spesso attaccate allo smartphone: ma non la vedo mai messaggiare col cellulare e non ha anelli alle dita: sarà libera? Non legge il giornale, la maggior parte delle volte consuma un croissant e un cappuccino fissando il vuoto; a volte la noto parlare con la barista, a debita distanza lei dal tavolino e l’altra al bancone, ma non capisco di cosa possano discutere.

In ogni caso la sua visione è il momento più bello della mia giornata. Cammino rapidissimo dalla stazione all’ufficio, ma percorro al ral-len-ta-to-re quei venti metri di vetrine sulla strada, per contemplare la scena ogni mattina. E anche perché spero che una volta i nostri sguardi si incrocino, ma no: sono solo un passante dei tanti, indistinto. Indossa più o meno gli stessi abiti. Cioè, non è che si metta i medesimi vestiti: è come se avesse tanti indumenti, ma molto simili… lo stile, ecco come si definisce: lo stile. Lo stile comprende stivali al polpaccio, con gambale largo e fibbia decorativa; longuette, camicia in tinta. Le tonalità cromatiche vanno sempre dall’ocra al terra di siena. Anche lo smalto delle unghie è sempre sull’arancione o sul rosso chiaro. I capelli sono molto lunghi, lisci, biondo cenere; le sopracciglia parecchio scure, ben accentuate. Avrà tre-quattro anni più di me e dall’aspetto potrebbe essere impiegata in uno studio notarile o in una filiale bancaria.

Ogni tanto mi dico che dovrei entrare nel bar Jolly e sedermi al tavolino accanto a lei, con una scusa attaccare bottone, sorprenderla raccontandole quanto già di lei immagino. Altre volte fantastico di acquistare una copia di Mancarsi di Diego De Silva, scrivere il mio numero nella pagina di guardia, entrare rapido e lasciarglielo lì, sul tavolo, senza parlare, solo guardandola negli occhi e poi uscendo. 

Non ce la faccio. Non ho il coraggio. Con le donne mi sento come si è sentito uno scrittore francese contemporaneo:

Quando ero piccolo, mia madre non mi cullava, mi accarezzava o mi coccolava abbastanza; non era abbastanza tenera; questo è tutto, e questo spiega il resto, e quasi tutta la mia personalità, le sue aree più dolorose comunque. Ancora oggi, quando una donna rifiuta di toccarmi, di accarezzarmi, provo una sofferenza lancinante e intollerabile; è un crepacuore, un collasso, è così spaventoso che ho sempre preferito, piuttosto che correre il rischio, rinunciare a tutti i tentativi di seduzione. Il dolore in questi momenti è così forte che non riesco nemmeno a descriverlo correttamente; supera tutti i dolori morali e quasi tutti i dolori fisici che avrei potuto conoscere altrove; in questi momenti mi sento morire, spazzato via, davvero. Il fenomeno è semplice, nulla mi sembra più facile da spiegare o interpretare; credo anche che sia un male incurabile.

Non ce la faccio nemmeno io. Il rifiuto -ogni rifiuto- mi devasta. Soffro meno a rinunciare.

L’altro giorno ho avuto un sussulto, però: lei conversava con un avventore che stava in piedi a lato del suo tavolino. Si sorridevano. Ho avuto un moto di gelosia: chi è quello? Che vuole? Allora forse ha un corteggiatore. Le piace? Allora forse qualcuno ci sta provando. Poi per fortuna lo sconosciuto non si è mai più manifestato; nelle mattine seguenti è tornata quella di prima, sola e lo sguardo sperso. Mi sono tranquillizzato.

Passato qualche giorno dalla definitiva sparizione del mio rivale, ho perso il treno delle 8.09 e mi è toccato quello delle 8.21, più affollato. Io andavo da Natuzzi, l’ho incrociata che avanzava in direzione contraria alla mia: si recava in ufficio? Plausibile. Sfortunatamente era sul marciapiede opposto. A un certo punto ci siamo perfettamente allineati ed è allora che ho inclinato il viso per guardarla. 

Se fossimo stati in un film, nell’istante in cui la linea immaginaria che collegava gli estremi dei nostri corpi si posizionava in asse lei si sarebbe voltata a osservarmi e avrebbe contratto le labbra compiaciuta come a dire: “Lo vedo, che mi guardi”.

Ma non si è accorta di me. Ha proseguito verso il suo studio, scura in volto. Ha affrettato il passo.