Gastone

Gastone

Si erano trasferiti in campagna, a Cumiana, perché la città era diventata troppo pericolosa. Il 12 giugno 1940, si era verificato un bombardamento su Torino. Per la prima volta si bombardava una città italiana, un attacco messo in atto con bombe di piccolo calibro. Alla fine si erano contati diciassette morti e quaranta feriti. Non avevano perso molto tempo, gli Inglesi: era la prima notte di guerra, quella tra l’11 e il 12 giugno, dal momento che il Duce aveva fatto la sua dichiarazione di apertura delle ostilità il 10. I bombardieri della RAF erano partiti dalla Gran Bretagna dopo il tramonto, ma sulla Manica le condizioni meteo sfavorevoli avevano imposto a 23 di essi il ritorno alla base. Anche sulle Alpi, i velivoli superstiti non avevano incontrato situazioni propizie: alla fine solo nove aerei avevano raggiunto Torino. Inizialmente gli obiettivi da colpire avrebbero dovuto essere gli stabilimenti FIAT di Mirafiori e gli scali ferroviari, ma ciò non avvenne: le bombe caddero in centro tra via Fiochetto, corso XI Febbraio e via Priocca.

Durante l’azione vennero sganciati 44 ordigni, praticamente uno al minuto dato che il sorvolo durò complessivamente tre quarti d’ora. Era stato un attacco inaspettato, cui i torinesi erano giunti senza preparazione: la città non era stata messa al buio e anche l’illuminazione pubblica era rimasta accesa per alcuni minuti; l’allarme era suonato in ritardo, a incursione già iniziata. Erano i prodromi del dilettantismo con il quale il fascismo avrebbe gestito il conflitto, mandando a morire gli alpini in Russia con le scarpe di cartone.

Luisa, la madre di Alfredo, come tutti era provata psicologicamente.

–Questo è solo l’inizio, proclamò stando ritta in piedi al centro della cucina. Arriveranno altri bombardamenti, altri allarmi. Altri morti e feriti. Ci daranno la tessera annonaria e verranno razionati burro, olio, farina, riso, pasta. Conviene trasferirsi in campagna: zio Renato ha l’orto e le bestie, patiremo meno la fame e saremo più sicuri. Nessuno bombarda i contadini.

Cumiana era pure comoda da raggiungere, aveva argomentato Luisa, dal momento che sulla tranvia Torino-Orbassano-Giaveno della SATTI era prevista un’apposita fermata, nella corsa che terminava a Pinerolo. Dal 1936 il servizio a vapore per Cumiana e Pinerolo era ormai stato sostituito con autobus, per cui il pericolo di un bombardamento al convoglio o alla linea veniva meno. Raccolsero in poche ore gli effetti personali più urgenti, tutto non si poteva portare, giusto ciò che entrava in una valigia: in caso di bisogno, avrebbero fatto una corsa verso la città.

Non erano stati i soli a maturare quel proposito: al capolinea della linea in via Sacchi, all’angolo con corso Vittorio Emanuele II, era tutto un transito di gente che voleva partire. Sfollavano i benestanti, coloro che se lo potevano permettere o semplicemente quelli che avevano una seconda possibilità a qualche chilometro, come Luisa. A Torino restavano i facchini, i manovali, gli operai, i custodi dei palazzi dei ricchi, che nella storia sono sempre i primi a mettersi in salvo.

Luisa non era una privilegiata, ma nemmeno una poveraccia: quel fratello maggiore a Cumiana costituiva una risorsa. Era rimasta vedova da tre anni. Con la proclamazione dell’Impero, suo marito aveva esteso il volume d’affari e la piccola azienda familiare di import-export era fiorita. Era stato aperto un ufficio commerciale ad Asmara. Dall’Africa orientale arrivavano per lo più caffè, banane, semi oleosi e cotone grezzo. Le esportazioni, soprattutto le esportazioni acquistavano una certa rilevanza: le merci erano destinate principalmente ai bianchi emigrati: si trattavano cereali, legumi, tuberi, bevande come birra, vino e vermouth, ortaggi e frutta; poi tessuti di cotone e farine. Marino, suo marito, si recava spesso ad Asmara o a Massaua, per gestire le trattative in loco, ed erano assenze di settimane o di mesi; ogni tanto la buttava lì, potremmo trasferirci in Africa, le prospettive sono ottime, il futuro è decisamente nel continente nero ora che il Duce ha deciso di investirci. Avremmo anche modo di trascorrere più tempo insieme, argomentava, e faresti la vita da signora. Luisa non era contenta: avrebbe ubbidito al marito, se fosse stata messa alle strette, ma avrebbe preferito non abbandonare l’Italia. La malaria interruppe i progetti di Marino: rimasta vedova, Luisa si era ritrovata ancora a Torino, fortunatamente, ma senza un reddito costante adesso non poteva che intaccare rapidamente i risparmi. La guerra rappresentava un ostacolo in più. Risposarsi avrebbe potuto essere una soluzione: pretendenti ne aveva, ma il piccolo Alfredo, di soli otto anni, ne faceva scappare parecchi: una vedova senza figli, o per lo meno con figli già sistemati, è sicuramente più appetibile sul mercato delle seconde nozze. E poi Luisa era pretenziosa, avrebbe voluto qualcuno che si avvicinasse agli standard professionali della buonanima.

Lo zio Renato viveva in una cascina piuttosto grande: assegnò ai parenti una stanza comoda e autonoma, anche se con un solo letto matrimoniale, per cui sua sorella avrebbe dormito insieme con il nipote. La scuola era finita, Alfredo aveva tempo libero. Giocava nel cortile e siccome non c’erano altri bambini in giro, dal momento che i figli dello zio Renato erano già sposati e stavano per conto proprio a Pinerolo, si arrangiava. Gli piaceva la palla a muro: lanciava la sfera contro una parete esterna della stalla dei bovini e si imponeva di riprenderla senza farla cadere per dieci volte. Se sbagliava, ricominciava daccapo. Se riusciva, aggiungeva di volta in volta una difficoltà: per esempio, batteva le mani una volta prima di toccare palla. Tre giorni addietro era arrivato a cinquanta colpi di fila e si era ritrovato a battere le mani, fare una giravolta e poi pure un inchino, e infine il saluto romano, prima di respingere il pallone. Quest’ultima complicazione gli aveva portato sfortuna: la palla gli era scivolata a terra e aveva colpito di rimbalzo un’anatra, che passeggiava per l’aia. La bestia si era spaventata ed era corsa via, lui era ripartito da zero. Renato aveva infatti un allevamento di anatre: in parte le vendeva per la carne, in parte le usava per le uova, di rado le mangiava lui; le teneva all’aperto ed erano piuttosto abituate all’uomo. Del resto allevare anatre non necessita di particolari accorgimenti, è sufficiente disporre di un prato piuttosto vasto per farle pascolare, e quello non mancava.

L’indomani Alfredo si era rimesso a giocare a palla al muro e l’anatra, riconoscibile per via di una lunga striscia rossastra che girava intorno al collo, si era messa a osservarlo, a debita distanza. Quella volta il gioco era riuscito e l’animale non era stato colpito: lo aveva guardato oscillando il capo a destra e a sinistra, poi si era allontanato. Nei giorni seguenti la scena si era ripetuta: Alfredo iniziava a trastullarsi, l’animale si avvicinava per esplorare i movimenti del bambino, il quale non aveva idea se l’esemplare fosse di sesso maschile o femminile. Nel dubbio, decise che si trattava di un maschio, del compagno di divertimenti che lì in campagna era assente, e gli diede il nome di Gastone. L’appellativo gli era simpatico, metteva allegria e poi gli ricordava una canzone che suo padre era solito canticchiare, quando era vivo ed era particolarmente di buon umore:

Gastone…
Sei davvero un bell’adone, Gastone, Gastone.
Gastone…
Con un guanto a pendolone
Vado sempre a pecorone, Gastone, Gastone

Un giorno avevano preso ambedue coraggio: Gastone si era approssimato fino a pochi centimetri, Alfredo aveva tralasciato la palla e si era abbassato sulle gracili ginocchia dopo aver fatto qualche passo in direzione dell’uccello. L’animale aveva lasciato che il bambino gli accarezzasse brevemente il capo. Non si era più spaventato.

–Hai fame Gastone? Aspetta che trovo qualcosa da darti.

Si diresse verso le pannocchie di mais dello zio, ne staccò una dalla piantagione e la sgranocchiò davanti all’anatra, che non si fece problemi a piluccare i granelli sparsi per terra a uno a uno, fino all’ultimo. Terminato il pasto, si voltò e iniziò a perlustrare il resto dell’aia.

–Sei proprio bello, Gastone, davvero un adone, commentò Alfredo mentre la bestia si allontanava.

A cena Luisa e Renato affrontarono l’argomento.

–Ti piace molto quell’anatra, esordì lo zio con tono canzonatorio, abbiamo un nuovo san Francesco. Vedo che te se la sei scelta per compagno di giochi.

–Lo zio dice che ti ha visto mentre rubavi una pannocchia di mais, lo inquisì sua madre con accenti ben più severi.

–Non l’ho rubata, mamma, non era per me. Ho pensato che Gastone avesse fame e…

–Chi è Gastone?

–L’anatra. L’ho chiamata io così.

–Siamo al ridicolo, commentò lo zio. Adesso diamo i nomi pure alle bestie da macello. Domani vado nella stalla, prendo un secchio d’acqua e battezzo le vacche: Daniela, Silvia, te lo immagini Luisa?

–Non devi affezionarti a quell’animale, Alfredo. E non puoi rovinare le coltivazioni dello zio per sfamarlo: ci pensiamo noi grandi a dar loro i mangimi. Siamo in guerra, c’è bisogno di tutto, non possiamo fare sprechi.

–Ma io qui non ho nessuno a farmi compagnia! Che male c’è?

–Non essere insolente, non ribattere! Che maleducazione è questa? Non hai letto a scuola che la prima virtù del bambino è l’obbedienza? E la seconda? L’obbedienza. E la terza? L’obbedienza.

Il piccolo credette che con quella ramanzina la storia fosse finita lì. Riprese a giocare a palla a muro e Gastone, puntualmente, faceva da spettatore; evitò di dargli il mais per non incorrere in ulteriori sgridate, ma ogni tanto si intascava qualche pezzo di pane o un mezzo biscotto a merenda, per dimostrare tangibilmente alla bestiola il suo affetto e la sua amicizia. Dopo, gli domandava se il cibo fosse stato di suo gradimento e gli prometteva nuove leccornie per il giorno dopo. Mentre governava la fattoria, zio Renato adocchiava da lontano le gesta del nipote e disapprovava: gli animali erano al mondo per servire l’uomo, pensava, e non esisteva altro rapporto possibile. La guerra sta facendo andare fuori di testa tuo figlio, ripeteva alla sorella, forse se tornaste in città potrebbe giocare con dei coetanei e non si ridurrebbe a conversare con un’anatra. Non se ne parla, ribatteva Luisa, meglio scemo che sotto un cumulo di macerie bombardate. Dato che sua sorella era molle e non riusciva a imporsi, Renato trovò il modo di passare il suo messaggio educativo.

Il compleanno di Alfredo si avvicinava e quell’anno sarebbe caduto di domenica: avrebbe compiuto nove anni il 14 luglio 1940, san Bonaventura. Sarebbe stata una doppia festività: il suo compleanno e il giorno del Signore. Era festa anche in Francia, a pochi chilometri. La mamma gli diceva che era nato in una data importante, che forse avrebbe studiato un giorno a scuola, ma poi quando Alfredo le domandava perché la presa della Bastiglia fosse stata così rilevante, Luisa rispondeva che non erano discorsi da bambini, che ci sarebbe stato tempo, che adesso la Francia non era un argomento da approfondire. Luisa era così: sfuggente, ambigua, incapace di portare a compimento le conseguenze di un pensiero. Quella domenica mattina andarono a messa lui e sua madre, mentre lo zio annunciò che avrebbe partecipato alla funzione del pomeriggio, ora aveva da terminare certi affari. E poi c’era da preparare il pranzo di festa. La chiesa parrocchiale di S. Maria della Motta, su un’altura al centro di Cumiana, era affollata di fedeli. Mentre il parroco officiava, Alfredo non lo ascoltava: preferiva guardarsi intorno. Si era messo un bel vestito elegante, degno della giornata. Osservava il bell’organo sull’arco d’ingresso. Luisa invece ascoltava le parole di don Giulio:

–Siamo in sofferenza per questa guerra, ma le trame della Storia si intrecciano ai disegni che Dio ha per la sua gente. Il Duce ha avuto il coraggio di fare la marcia su Roma, con la quale è stato stroncato il comunismo in Italia. Il nostro pontefice Pio XI dice che Mussolini è un uomo inviato dalla Provvidenza, è il fautore del Concordato con il quale abbiamo dato Dio all’Italia, l’Italia a Dio: cercate nella storia, se esiste, un altro uomo politico che abbia ricevuto queste parole dal Romano Pontefice. Abbiate fiducia che questo conflitto sarà vittorioso e il sacrificio fatto varrà a spazzare via del tutto la minaccia dell’ateismo e del comunismo.

Dai fedeli ci fu un leggero mormorio di approvazione. Luisa si chiese cosa c’entrassero le bombe inglesi, del tutto plutocratiche, con Stalin; ma lei non era un’esperta di politica, per lei quelle erano faccende da uomini. I maschi facevano le guerre, alle donne toccava patirne le conseguenze. Finita la messa, si avviarono verso casa, che distava una buona mezz’ora a piedi dal centro del comune. Prima di entrare e di sedersi a pranzo, Alfredo osservò il gruppo di anatre e non scorse la sua.

–Sai mamma, è da due giorni che non vedo Gastone quando gioco.

–Ancora stai a pensare a quel pennuto. Non ti dare pena.

–Io ci sono affezionato. Speriamo sia qui intorno.

–Più ti affezioni a qualcosa, più hai occasioni di dolore.

Entrarono in casa. Si prepararono a mangiare. Renato e sua moglie, zia Vincenzina, avevano apparecchiato per le occasioni di festa, con la tovaglia buona e i bicchieri di Boemia. Al centro del tavolo spiccava un portavivande con un coperchio tondo. Vincenzina lo sollevò e uscì del vapore caldo; servì prima il marito, poi la cognata, infine affettò l’arrosto per il nipote e scodellò un po’ di patate al forno come contorno.

–Non capita tutti i giorni di mangiare carne, specialmente in guerra, esultò festante Renato, ma oggi è il compleanno di mio nipote e ho voluto fare un’eccezione, crepi l’avarizia, posso ancora fare a meno di un capo venduto.

Dalle sembianze, l’arrosto non sembrava di maiale, né di bovino: non era un taglio, sembrava piuttosto un animale intero. Un tacchino? Una gallina? Era di sicuro un volatile. Ad Alfredo l’arrosto piaceva, inforchettò un piccolo pezzo di petto e lo mise in bocca. Fu colpito dal sapore leggermente dolciastro, diverso dal solito pollame. Un’improvvisa paura si impadronì di lui, una vera e propria agitazione lo colse mentre lo zio Renato assaporava quelle carni con un sorriso sarcastico, finché non domandò al nipote, mentre si versava un bicchiere di barbera:

–Ti piace sempre, Gastone?