Il danno scolastico: una riflessione

Il danno scolastico: una riflessione

Del libro di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, Il danno scolastico (La Nave di Teseo, 2021) si sta discutendo molto e quando un saggio riapre la discussione sulla scuola l’evento è di per sé positivo. In realtà, gli autori sono stati attaccati duramente e lo sono stati spesso su base meramente ideologica, senza aver letto il volume e senza entrare nel merito. Sembrerebbe che per alcuni Mastrocola e Ricolfi abbiano torto a prescindere e il dibattito assume, come anche si è verificato per il ddl Zan, toni da tifoseria.

Sono contro perché è Mastrocola e non può che avere torto. Stia zitta, cosa vuole ancora questa.

Ricolfi è un reazionario ultraliberista, che ne sa di scuola?

E via insultando.

Il fatto è che il docente medio (ma anche più di un dirigente scolastico, in tutta onestà) è soggetto suscettibile assai, e non desidera che si mettano in discussione alcuni totem consolidati. Si è affermato un paradigma che non può essere criticato.

Cercherò di non cadere nell’errore di diventare più reazionario dei detrattori della coppia torinese e partirò dall’assunto che nel libro si trovano spunti condivisibili e altri meno.

1 Il primo aspetto su cui soffermarsi è la ripetitività della tesi. Mastrocola in effetti scrive ormai da anni saggi pressoché identici di denuncia, affermando che la scuola è decaduta perché arrivano nei licei studentesse e studenti che non possiedono adeguate basi ortografiche, sintattiche, lessicali e non riescono ad articolare discorsi complessi, abituati come sono a ragionare per quiz e domande chiuse. In qualche occasione (come per es. in Togliamo il disturbo) le va riconosciuto l’onore di essersi spinta, rimanendo inascoltata, su qualche proposta operativa per provare a risolvere il calo di preparazione dei liceali in ingresso; per esempio ha suggerito la canalizzazione precoce dei discenti che in alcune realtà europee (Germania, Austria, Paesi Bassi) è una prassi comune senza che nessuno si scandalizzi. L’idea di base non è solo che al liceo si giunga impreparati perché il primo ciclo lavora male, ma anche che il liceo sia molto più appetibile in quanto ha un’immagine prestigiosa, pertanto ci si iscrive anche su basi totalmente velleitarie. Indirizzare presto verso certi studi e non su altri è forse poco democratico, ma ridurrebbe probabilmente la dispersione scolastica, la quale non solo demotiva lo studente, ma rappresenta anche un costo notevole per il sistema, dato che secondo alcuni studi lo Stato spende circa 36mila euro per ogni ripetente. Forse prevenire sarebbe meglio che curare, ma in Italia non esiste l’abito mentale per introdurre questa novità: le famiglie, per prime, la contesterebbero (per non dire dei docenti e dei dirigenti di cui sopra). Se mi è consentito scadere nell’aneddotica personale come dicono alcuni, che io invece preferisco chiamare esperienza, la quale comunque ha un valore checché ne sostenga Enrico Galiano, ricordo che qualche anno fa mi sentii rispondere, da un genitore cui avevo consigliato un istituto professionale per la propria figlia: “No, mia figlia farà un liceo: il professionale è roba da sfigati”. Conosco anche, di persona personalmente, alunni che hanno ripetuto tre volte la prima liceo scientifico pur di ignorare il consiglio orientativo fornitogli alla fine della scuola secondaria di I grado. Nell’epoca dei tuttologi, nell’era in cui ogni parere tecnico vale quanto quello del laureato all’Università della Vita, il suggerimento di un certo percorso di studi può essere inteso come insulto personale. Forse nei paesi germanici funziona altrimenti e le famiglie si fidano maggiormente di quanto il docente vede in classe ogni giorno, ma in Italia no: non si può parlare di canalizzazione precoce, è uno di quei tabù che nessuno può toccare. Meglio illudere tutti di poter diventare avvocati -è poi mai veramente necessario diventare tutti avvocati?- salvo poi vederli abbandonare il liceo dopo tre anni e finire col fare il professionale.

Quindi su questo punto concordo con Mastrocola? Si e no. Si, nella misura in cui è inequivocabile che non pochi studenti escano dalla terza media senza conoscere ortografia e sintassi, senza saper scrivere e comprendere un testo e nonostante questo si iscrivono a un liceo. Un sistema efficiente non dovrebbe permettere ciò. No, nella misura in cui tale ragionamento rivela un’immagine svilita dell’istruzione non liceale, come se in istituto tecnico o in un professionale non si dovesse studiare, come se quel tipo di percorso non fosse degno e serio. Serve, anzi, recuperare una piena dignità dell’istruzione professionale, per evitare che continui a essere un ripiego dei reietti liceali o dei pluriripetenti altrove, o un consiglio impartito a coloro che, nel grado precedente, “non hanno tanta voglia di studiare”. Io lo dicevo sempre ai miei alunni: dovrete studiare tantissimo anche al professionale e al tecnico, solamente sarà un diverso tipo di studio.

Ecco, questa dignità dell’istruzione non liceale nel saggio di Mastrocola e Ricolfi non la scorgo, eppure mi sembra che le due cose viaggino insieme: devo dirti che non sei portato (non che non sei all’altezza, è diverso) per uno studio liceale teorico e devo poterti anche, però, dolcemente costringere a non sbagliare; se quel percorso ha una dignità come l’altro, forse meno gente si vergogna nello sceglierlo. Questo è un paese che ha svilito la cultura tecnica, il sapere manuale, i quali invece sono tanto fondamentali in economia quanto i lavori intellettuali. Vogliono tutti lavorare nel terziario, ma servono anche ottimi artigiani e bravi professionisti. Nessuno glielo spiega e chi ci prova viene preso per snob. Pazienza.

Una modesta proposta che avanzo potrebbe essere non semplicemente “bocciare maggiormente” come afferma Mastrocola, ma riformare seriamente i cicli. La Moratti aveva provato a conferire una dignità autonoma maggiore all’istruzione professionale regionale separando nettamente i due percorsi, abolendo istituti tecnici e professionali e istituendo, tra l’altro, il liceo tecnologico. Sulla base della rivolta dei reazionari che ne seguì (ma di quelli veri, che si annidano talora nelle sedi sindacali) la riforma -come è noto- venne di fatto smantellata dagli stessi alleati politici della Moratti e non entrò mai in vigore.

Nella figura sottostante ho raffigurato una suggestione di riforma dei cicli, che si potrebbe tentare se non vivessimo in una nazione in cui ogni forza politica ha rinunciato a realizzare serie riforme strutturali della scuola per paura dei contraccolpi elettorali che ciò inevitabilmente comporta (e a microfoni spenti te lo dicono: non tocco la scuola, perché chi la tocca muore).

Proposta di riforma dei cicli

Il sistema separa nettamente Istruzione da Istruzione e Formazione Professionale, quest’ultima di competenza esclusivamente regionale. Nel sistema dell’obbligo, da cui continua a non entrare la scuola dell’infanzia per motivi che qui ci porterebbero ad altre considerazioni, il primo ciclo ha una durata di 10 anni, il secondo di tre; il primo ciclo a sua volta è suddiviso in sei anni di scuola primaria (2+2+2) e quattro di scuola secondaria di I grado. Nella scuola secondaria di I grado, il primo biennio è comune e di orientamento: al termine di questo biennio, dunque a 14 anni, i discenti vengono indirizzati, attraverso un consiglio orientativo vincolante per la famiglia, o al sistema IeFP oppure ai due anni successivi di scuola secondaria di I grado, i quali però non prevedono percorsi comuni ma sono in qualche modo già caratterizzanti e corrispondono, grosso modo, all’attuale biennio (quasi comune) del secondo ciclo. Qua termina la scuola dell’obbligo e chi lo ritiene prosegue nel secondo ciclo, un secondo ciclo vero e proprio ridotto a tre anni, nel quale sono presenti indirizzi interni come ora, ma che di fatto sono già fortemente caratterizzanti.

Nel sistema IeFP operano agenzie formative accreditate dalle Regioni che offrono, dopo il biennio orientativo della secondaria di I grado, qualifiche triennali che danno accesso a un ulteriore anno integrativo per ottenere un diploma professionale.

Domanda che potrebbero pormi i fautori della scuola “democratica”: sono possibili passaggi tra i due sistemi? Certo, ma non in modo così semplice, bensì attraverso un sistema di esami integrativi e/o di test di ammissione che appuri l’effettiva capacità di sostenere un percorso differente.

Se questa mia proposta vi scandalizza non preoccupatevi, resterà un bell’esercizio accademico cui non presterà attenzione alcun legislatore. Se invece vi piace, rattristatevene perché rimarrà lettera morta.

2 La prospettiva italianocentrica. Una domanda che occorrerebbe porsi, a sostegno o meno della propria tesi, è: si tratta di un problema solo italiano? Solo da noi accade che la gente non sappia più scrivere, comprendere un testo, argomentare? L’analfabetismo funzionale è solo del Belpaese? Non è un tema secondario, perché i sistemi scolastici variano molto da paese a paese e se scoprissimo che ovunque si registra un calo delle competenze logico-linguistiche, ne dovremmo arguire che non è la scuola, o perlomeno non solo lei, la sede del danno. Complici le nuove tecnologie come il T9 o WhatsApp, per esempio, in paesi come Cina e Giappone si registra che molti dimentichino la corretta scrittura; solo ieri leggevo che il 50% dei messaggi vocali mondiali è inviato dai cittadini della Cambogia. Visto che il khmer è una lingua con 74 segni alfabetici, la gente rinuncia a scrivere e comunica quasi esclusivamente tramite vocali. Si dirà: sono lingue orientali, molto più complesse delle indoeuropee. Alzi la mano chi, in Italia, non preferisce dettare una mail dallo smartphone o inviare un vocale invece che scrivere un lungo messaggio (detesto i vocali, detto per inciso).

Se andiamo a scorrere le classifiche delle percentuali di analfabeti funzionali nel mondo, uno studio del 2018 di Infodata mostra come è vero che l’Italia sia al quarto posto mondiale (28% della popolazione), ma i suoi esiti non sono poi così distanti da quelli di altri paesi (Israele e Spagna 28%, Grecia 27%, Francia 22%) non propriamente del terzo mondo. Gli esiti migliori, guarda caso, li ottengono paesi come Germania, Paesi Bassi e Austria – lascio a voi ipotizzare se sia o meno l’effetto di una canalizzazione scolastica precoce.

Ciò che omettono Ricolfi e Mastrocola è dunque che l’analfabetismo funzionale di ritorno non è un problema solo italiano, ma riguarda molti paesi: se ne dovrebbe dedurre che tutti i sistemi scolastici siano decaduti e degradati, ma don Milani, che pure non mi è simpatico, non ha certamente influito sul sistema scolastico israeliano o iberico. La questione che sfugge agli autori è un’altra: la scuola non è una monade slegata dal contesto, ma è inserita nel mondo e nella società. Le nuove tecnologie hanno un peso nell’avanzata dell’analfabetismo funzionale; senza demonizzarle ipso facto, sono ormai diversi i saggi, tra cui quello piuttosto noto di Spitzer, Demenza digitale (Corbaccio 2019) a evidenziare il legame tra la diffusione di Internet e dei dispositivi sempre connessi e la perdita di abilità logico-linguistiche e di cittadinanza. Se la scuola fosse una vittima di tutto questo? Se stesse, semplicemente, provando a svuotare il mare con un cucchiaio? Capisco che questo possa dare adito a tendenze autoassolutorie e vittimistiche di cui la scuola italiana non ha affatto bisogno, ma ritengo piuttosto assodato che sia avvenuto, dall’avvento di Internet, un mutamento antropologico a livello globale. La banalizzo in questi termini: mediamente, le persone hanno meno voglia e capacità di ricordare e di concentrarsi a lungo, perché tanto l’informazione è sempre disponibile e ci viene lei incontro; mediamente, il fatto che camminiamo costantemente con “muscoli cognitivi” esterni ed eterodiretti indebolisce il nostro apparato cognitivo e lo abitua a lavorare meno. La scuola è inserita in tale contesto e non è possibile eludere una simile questione, anzi direi che è la questione. La scuola è rimasta ancorata a modelli di apprendimento e a schemi cognitivi che stanno scomparendo. Non dico che sia un bene, ma affermo che sia un fatto.

3 Il mutato quadro sociale. Ricollegandomi a quanto appena scritto, va inoltre precisato che la società italiana è cambiata profondamente negli ultimi trent’anni. Io non ricordo, né alle elementari né medie né al liceo, un mio compagno che non fosse italiano madrelingua; oggi in aula abbiamo moltissimi stranieri per i quali l’italiano è L2. Le certificazioni di disabilità, le diagnosi di DSA sono in costante aumento; le famiglie sono disgregate e la cura familiare verso i minori si è attenuata, perché i genitori medi si sentono de-responsabili e delegano la cura educativa ad altri soggetti, tra cui la scuola. Sono fattori di cui occorre tenere conto, nel calo degli esiti scolastici? Io credo di si. Di questo tema non si parla nel libro di Mastrocola e Ricolfi, come se fosse possibile paragonare l’Italia degli anni ‘60 e ‘70 con quella odierna. Bisognerebbe comprendere come governare in modo efficace questa complessità; concordo con i due autori che la strada corretta non sia quella di abbassare il livello generale per fare in modo che tutti possano fingere di farcela, nel loro volume trovo solamente la diagnosi, però, senza proposte operative di gestione della mutata situazione (davvero basta bocciarli tutti? Io credo, come ho spiegato sopra, che occorra piuttosto differenziare i percorsi).

4 Infine, la questione metodologica. Non sono un matematico e non sono specializzato in statistica, quindi non posso controllare se il modello elaborato da Ricolfi sia valido e scientificamente fondato. In base a questo modello Ricolfi afferma che è dimostrato che un’istruzione di qualità avvantaggia soprattutto i ceti umili. Suppongo che Ricolfi non voglia correre il rischio di screditarsi accademicamente e del resto, se guardo alla mia storia familiare, io sono proprio un esempio di quanto sostenuto nel saggio: dirigente scolastico con laurea e dottorato di ricerca, uscito da una famiglia di operai con la licenza elementare anche grazie a maestre e professori nella maggior parte molto validi e parecchio esigenti. Mi devo dunque fidare, anche se resto perplesso di fronte a una misurazione matematica di un bene tanto fluido e intangibile quanto la qualità dell’istruzione, soprattutto in assenza di dati INVALSI nel periodo che si suppone “aureo”, quello cioè della scuola pre-autonomia e presessantottina. Vorrei però dire, a Ricolfi e Mastrocola, che ci ho messo molto del mio: non sarebbe bastato avere buoni docenti se in famiglia non mi avessero trasmesso l’importanza dello studio, della cultura e del sacrificio. Nelle famiglie italiane, oggi, quanto viene inculcato questo valore? E se non viene sottolineato, anzi se esso viene sistematicamente negato, la responsabilità è della scuola oppure del contesto sociale? Ha ragione Mastrocola quando scrive che la scuola facile fa comodo a tutti, soprattutto a quei genitori pronti a negare qualunque difficoltà, qualunque insuccesso, qualunque opinione diversa dalla loro circa le capacità scolastiche del “genio incompreso”. Lo vediamo nei ricorsi, in aumento, fatti anche da famiglie che contestano l’aver fermato un’alunna con sette-otto insufficienze (sic!).

In definitiva, il Danno scolastico ha un valore nei limiti che può averlo un sintomo quando siamo malati: siamo tutti d’accordo sul fatto che il sistema non funzioni più; il volume però non propone soluzioni percorribili, se non un ipotetico ritorno agli anni ‘60, che non è possibile perché nel frattempo tutto è cambiato; e mi spiace anche che il saggio dia adito a critiche più sbagliate della proposta originale, perché assisto, nell’attacco a Mastrocola e Ricolfi, a una difesa a oltranza dello stato dell’arte attuale, altrettanto inaccettabile e ideologica. Mi verrebbe da dire: avete torto entrambi, finti progressisti e supposti reazionari. Pensate piuttosto a una seria riforma dei cicli.